Easy

Dec. 26th, 2021 03:10 pm
donnievt: (Default)
BTS [hopekook], scritta per il Secret Santa 2021 sotto il prompt "se solo fosse così semplice / sei tu che lo rendi complesso" di Smile.
Rating: safe
Warnings: /

Spero ti piaccia <3



------


 

Non importa quanti anni dal debutto siano passati – quattro, cinque, sei – e non importa quanto sia cresciuto, quanti muscoli abbia messo su, quanti colori abbia cambiato sui capelli o quanto sia migliorato nel canto e nella danza: Jungkook non dimentica mai di essere il più giovane in quel gruppo di sette.

E a volte il motivo è piacevole: Jin che lo vizia preparandogli la sua cena preferita dopo un allenamento intenso, Yoongi che ha sempre tempo per ascoltare le sue nuove aspirazioni musicali, Jimin e Taehyung che non lo lasciano mai solo, Namjoon che lo aiuta a trovare le parole giuste per quel verso che proprio non viene su. Sono piccole attenzioni che gli ricordano che, anche dopo tempo, lui è rimasto il loro golden maknae, nonostante tutto.

A volte, però, Jungkook si ritrova dietro uno scudo, il loro senso di protezione così forte che farebbero di tutto per non fargli del male. Ed è frustrante – perché Jungkook vuole farsi male e diventare un adulto esattamente come tutti loro.

Ecco perché non è più riuscito a sopportare gli sguardi fugaci di Hoseok. I loro occhi s’incontrano meno di quanto Jungkook ricordi e, quando lo fanno, Hoseok finisce per abbassarli, distoglierli, voltarsi. Sono settimane che non è più in grado di osservarlo com’era solito fare – con affetto infinito, un sorriso sulle labbra. Come se Jungkook fosse l’unica stella in grado di brillare con questa intensità. E a Jungkook mancano le sue iridi scure sul proprio corpo, così come gli mancano le sue mani intrecciate alle proprie, le sue labbra sulla guancia per un bacio, e poi sul collo, e poi sul petto.

A Jungkook manca essere di Hoseok, e non sa cosa sia cambiato esattamente tra i giorni in cui si amavano in silenzio e adesso, che Hoseok sembra allontanarlo con delicatezza, le attenzioni solo per la danza finché non è esausto e non riesce a pensare a nient’altro. Ma è determinato a scoprirlo.

“Se solo fosse così semplice.”

È quello che Hoseok gli dice, e Jungkook lo vede chiaramente: in quello studio dove sono solo loro due, in quell’inverno particolarmente freddo, Hoseok è stretto nelle spalle e tenta in qualsiasi modo di guardare altrove – ma Jungkook non si lascia sfuggire il tremolio delle sue labbra, le dita che si chiudono a pugno. Non si lascia sfuggire il suo corpo immobile quando, solitamente, è instancabile, né la voce umida, il respiro spezzato. E vedere il maggiore in quello stato gli fa stringere il cuore. Sapere che è quell’amore, che a lui ha portato solo tranquillità, a renderlo così irrequieto. Silenzioso. Spaventato. Nessun aggettivo che si adatta alla figura di Hoseok.

“Perché, hyung? Cosa non è semplice?”

Perché Jungkook proprio non lo comprende, e forse è per questo che si sente così giovane di fronte ad Hoseok, solo un bambino. Perché per lui è stato tutto naturale: scegliere il letto sopra al suo quando erano ancora tutti stretti in una sola camera, imitare i suoi passi durante le prove da trainee per imparare a fare meglio, ammirarlo da lontano in ogni suo sorriso durante le interviste difficili del debutto, sedersi sul pavimento ed ascoltarlo creare le track del suo primo mixtape, e poi cercarlo e cercarlo ogni giorno con le scuse più stupide solo per potergli stare accanto, per potersi crogiolare nelle attenzioni che solo Hoseok è capace di dargli, quelle farfalle che non sono mai diminuite e hanno fluttuato, libere, nel momento in cui si sono baciati per la prima volta.

“Cos’ho sbagliato?”

Jungkook ha paura che per Hoseok non sia stato lo stesso. E il suo viso dev’essere mutato così profondamente, al pensiero, che Hoseok, davanti a lui, deve averlo compreso. Perché finalmente lo guarda, e gli si avvicina, gli poggia le mani sulle gote, lo stringe a sé come se col solo contatto potesse rassicurarlo. “No,” dice, “no no, Jungkookie, no. Non hai sbagliato niente. Hyung, hyung ha sbagliato― devo proteggerti. È tutto così complicato.”

“Io non ho bisogno― ”

“Non capisci. Tu sei così― così piccolo. E ci sono certe notti in cui ti guardo negli occhi e penso – non è stupido? – penso che tu abbia tutto il cielo proprio lì dentro. Non riesco a pensare che potrei essere io a farlo sparire. A spegnere le tue stelle. Io e te― è complesso.”

E se Jungkook ha mai avuto qualche dubbio sull’amore che Hoseok ha sempre nutrito per lui, allora basta questo a cancellarlo: il calore del maggiore mentre lo stringe, i pollici che sfregano piano sugli zigomi per raccogliere le lacrime. Il dolore nella voce di Hoseok mentre gli dice che è disposto a rinunciare a questo privilegio – amarlo – per proteggerlo. Per assicurarsi che il suo bambino prezioso possa vivere felice.

Hoseok non sa, pensa, che la felicità Jungkook l’ha trovata tra le sue braccia, circondato dalle sue felpe colorate.

“Sei tu a renderlo complesso, hyung. È facile. Guardami.”

E allora è il turno di Jungkook, perché possa dimostrarglielo.

Nei baci che lascia sulle palpebre di Hoseok, Jungkook mette tutta la paura di perderlo, le labbra che tremano. In quelli che lascia sulla fronte, la gioia di quel giorno in cui Hoseok ha deciso di rimanere dopo le lacrime che ha versato. In quelli che lascia sul collo, la sensazione di quelle notti passate a ricucire tutti i loro strappi nel modo più intimo che abbia mai conosciuto.

E, infine, nel bacio che gli lascia sulla bocca, Jungkook mette quel ragazzino che ha trovato così semplice scoprire tutto un universo in quel sorriso che, proprio adesso, ha l’onore di baciare.

Hoseok sorride, Jungkook lo sente. Lo sente mentre l’abbraccia, mentre gli passa una mano tra i capelli.

“Hai ragione, Jungkookie. Amarti è così facile, e anche il resto lo sarà. Te lo prometto.”

Hoseok sorride, e a Jungkook va bene così.


donnievt: (Default)
BTS Soulmate AU [taegikook], scritta per il vilifest2 sotto il prompt "everybody say NO! It’s not going to work anymore, Don’t be captured in others dreams" di Cain.
Rating: safe
Warnings: /



------


 

Yoongi non sa davvero dire quando sia successo.

Alle volte, soprattutto le notti dopo aver lavorato a qualche traccia sfiancante, ci pensa per ore mentre rimane disteso nel letto. Ripassa tutti gli anni precedenti in cerca di un indizio, di qualcosa che possa aiutarlo a capire quando sia cambiato tutto. Ma non ci riesce.

Provvidenziale, questa stanchezza perenne che lo ha inglobato in tutti questi anni – troppo preoccupato di chart internazionali e stage in America – e che gli ha dato respiro solo adesso. Perché gli ha permesso di non pensare. Di non accorgersene. E infatti non importa quanto ci rifletta, Yoongi non riesce proprio ad afferrare il momento esatto in cui ha cominciato a pensare a Jungkook e Taehyung come a qualcosa di più che colleghi. Che amici. Qualcosa di più che famiglia.

È semplicemente successo. Nessuna grande realizzazione, nessuna sorpresa svelata.

Forse perché l’ha sempre saputo – forse l’ha sempre fatto, li ha sempre amati nel buio del suo petto, e tutti quei giorni passati barricato allo studio tentando di mettere a fuoco una mente sfocata, obbligandosi a lavorare su tutte le demo da completare e su nient’altro, senza bere, mangiare, dormire, ecco, forse tutto quel tempo che ha passato a soffocarsi è stato solo un debole tentativo per non sapere. Non capire. Non pensare al modo in cui Taehyung protende le labbra sporche di salsa quando mangia, come se le sue guance rotonde non riuscissero a contenere tutto ciò che si è messo in bocca nella fretta della fame, o ancora come Jungkook arriccia il naso quando vuole evitare di ridere, i suoi lineamenti candidi che invece lo tradiscono senza pudore.

Non loro, non Jungkook e Taehyung. Che stupidaggine.

Eppure sono scolpiti dentro, questi dettagli insignificanti che non noterebbe nessuno e che invece Yoongi osserva con attenzione e ripassa nella mente per ore quando si ritrova da solo e il battito del suo cuore gli martella incessante nelle ossa.

La conferma, silenziosa e assoluta, di tutto ciò che lo spaventa avviene una mattina, davanti allo specchio. La sua figura snella gli restituisce un riflesso che non gli appartiene: un tatuaggio dalle linee eleganti – tre fiori, per essere precisi, stretti in una composizione ordinata, uniti l’uno all’altro da tratti sinuosi. Comparso sulla sua pelle come se fosse una magia, esattamente sopra il suo pettorale sinistro. Sul cuore. Che ironia.

Perché Yoongi è sempre stato un intonso – non ha mai avuto nessun inchiostro sulla pelle che lo potesse assegnare alla persona perfetta, nessuna anima gemella a cui tornare, e lo sa bene perché ha passato tutti i primi anni della sua adolescenza a controllare ogni singola zona della sua pelle bianca, ogni spazio tra le dita alla ricerca disperata di qualche segno che dicesse che non sarebbe stato solo. Che anche lui avrebbe avuto il privilegio di affondare nelle braccia di qualcuno, un giorno. Ma non l’ha mai trovato. È nato senza, e ha imparato a non farsene un cruccio. Ha smesso di piangere. Non gl’importa. La sua eterna sposa è la musica, d’altronde, e non vorrebbe che fosse nessun altro.

Quello, però, è fuori dal comune. Nascere senza marchio è raro, certo, ma vederlo apparire sulla pelle dopo anni è quasi impossibile. Un miracolo. E Yoongi avrebbe potuto prenderlo per questo – per un miracolo, una benedizione. Yoongi avrebbe potuto essere felice, guardarsi allo specchio e brillare di gioia nel sapere che qualcuno è destinato a lui. Che lui è destinato a qualcuno.

Avrebbe potuto. Ma quel disegno così semplice, nero a contrasto col suo petto pallido, è familiare. Simile, sul dorso della mano di Jungkook. Simile, nell’incavo del collo di Taehyung.

Uguale, a connettere Taehyung e Jungkook sin dalla prima volta che si sono incontrati, sotto il tetto da trainee della Big Hit, anni addietro.

E ora, uguale, a connettere anche lui.

Yoongi lo ha sfregato con le unghie fino a sanguinare, quella mattina, nella speranza che fosse tutto uno sbaglio, un’allucinazione. Per cancellarlo, forse. Ma sono rimaste lì, quelle linee sinuose. Una sorta di condanna impossibile da ignorare, che gli ricorda che è tutto vero. Sono reali, i sentimenti che prova.

L’ha accettato. Nessuno scollo profondo, maglie larghe che nascondo quel segno dagli occhi di chiunque – da due in particolare. Perché accettarlo non vuol dire assecondarlo.

Yoongi li ha visti crescere, Jungkook e Taehyung, passare da ragazzini dinoccolati a quasi uomini con un diverso colore di capelli ogni mese. Sono stati piccoli, fragili tra le sue mani, alla ricerca di una sicurezza che Yoongi non credeva di possedere ma che si è ritrovato a donare senza difficoltà – e anche ora, che Jungkook e Taehyung sono in grado di stare in piedi da soli e non traballano, continuano a cercarlo con la stessa forza di prima. Continuano ad approdare nel loro porto sicuro, e Yoongi non ha mai il coraggio di mandarli via.

Yoongi ha anche visto il loro amore sbocciare lentamente, nel silenzio del loro dormitorio. Li ha visti accettare il tatuaggio che li unisce, sfiorarlo distrattamente dopo una coreografia intensa; li ha visti danzarsi intorno, spaventati di non combaciare, tentare e fallire e tentare di nuovo; e poi li ha visti prendersi per mano, cercarsi con gli occhi durante le interviste, li ha visti condividere un solo letto durante la notte; li ha visti adattarsi l’uno all’altro con una spontaneità dolorosa, li ha visti collimare e coincidere nei loro baci, nel modo in cui danno il meglio solo quando anche l’altro è vicino ad osservare; li ha visti completarsi senza bisogno di nient’altro – in un’industria che li costringe a nascondere i tatuaggi con troppo fondotinta, in una società che giudica e distrugge, il loro amore sincero è prova che è ancora possibile creare. Sperare.

E forse Yoongi ci crede, nel destino, a guardarli: perché i loro marchi non mentono, Jungkook e Taehyung sono nati per incontrarsi e non dividersi. Perfetti.

Ma con lui il destino si è sbagliato, e ne è sicuro. Nonostante questi tre fiori sul petto, nonostante questi sentimenti strazianti nel suo corpo sottile, Yoongi ha molto poco a che fare con l’amore che Jungkook e Taehyung condividono. La loro connessione è autentica – sono destinati sin dalla nascita, d’altronde. Ma Yoongi è solo una variabile indesiderata, un incidente che non ha intenzione di rivelare perché, fondamentalmente, non lo merita, l’amore puro che vede ogni volta che li osserva da lontano. Non importa quanto dolore possa provare alla sola idea di perderli, all’idea che un giorno non saranno più parte della sua vita e lui non potrà svegliarsi con le loro risate squillanti che risuonano nel dormitorio, con le loro voci divertite che lo chiamano da lontano – Yoongi non s’incastra perfettamente tra loro due, Yoongi è fallato e passa la sua intera vita su melodie che non ascolterà nessuno, Yoongi ha il taccuino pieno di scarabocchi neri a cancellare parole e sentimenti e Yoongi crede che la sua mente non sia poi così diversa, Yoongi non brilla e la sua testa è buia e teme il futuro più volte di quante vorrebbe ammettere, Yoongi ha demoni di cui non riesce a liberarsi e non vuole infestare anche le loro vite, non dopo tutte le stronzate che hanno subito in quanto idol, in quanto amanti.

Yoongi non è in grado di amarli come loro amerebbero lui. Yoongi è pesante, il suo corpo, i suoi pensieri. E non vuole farli annegare.

Ma Taehyung e Jungkook lo amano. Malgrado le sue insicurezze. Malgrado il veleno delle parole che Yoongi ha gridato loro quando hanno scoperto del marchio sul suo petto. Malgrado abbia tentato in tutti i modi di allontanarsi, di correre via perché non è sicuro di riuscirci, riuscire a far finta che non siano veri i sogni che fa su di loro in cui si lascia amare e al risveglio ha le guance umide di lacrime – ha paura che gli sfugga dalle mani, che lo tradisca, questo amore che non riesce a contenere e che trabocca in ogni suo gesto, ogni sguardo che posa su di loro.

Ma Taehyung e Jungkook lo hanno amato anche questa notte.

Sono entrati nella sua camera senza dire nulla, chiedendo permesso solo con i loro occhi enormi e sinceri – e Yoongi ha stupidamente pensato che quello somigliasse tremendamente al modo in cui avevano preso posto nel suo cuore, silenziosamente, a passi piccoli e tocchi gentili, nonostante i sentimenti che li accompagnavano fossero fragorosi e gli risuonassero sottopelle da anni.

Taehyung gli cerca le mani per afferrarle, il suo calore confortante nella serata gelida, e Jungkook poggia la fronte sulla sua spalla, respirando piano. Perché, gli chiedono ancora una volta, perché non si concede di essere felice, perché continua a respingerli con così tanta ostinatezza – perché non accetta di meritarli, meritare tutto ciò che vorrebbero dargli, più di chiunque altro, disinteressatamente così come l’amore che Yoongi ha donato loro per tutto questo tempo.

Perché non lascia che gli dimostrino, stanotte, il legame che li unisce.

E Yoongi è stanco, così stanco di accartocciarsi e nascondersi e mentire, e loro sono così testardi nel loro desiderio – ma Jungkook e Taehyung lo conoscono e lo amano anche quando fugge, anche quando non lo comprendono. Lo liberano, ogni giorno di più, dal pensiero che sia solo degno di sé stesso, di tutti i suoi sbagli, dal pensiero che sarebbe unicamente meritevole della solitudine nella quale ha cercato disperatamente di celarsi. Yoongi non ha la forza di dire no. Non oggi.

Le labbra di Taehyung sono morbide quando si poggiano sulle sue, quando percorrono il suo collo lentamente, ed è stupendo, nei suoi capelli argentati e arruffati, la sua pelle dorata che splende anche sotto la luce della luna e Yoongi vuole solo sfiorarlo, ma sono le mani di Jungkook che gli avvolgono i fianchi, che lo stringono tra i loro due corpi e sono forti, Yoongi sente tutta l’intenzione nei suoi tocchi timidi ma fermi – e per poco non dimentica tutto, sotto le attenzioni delle loro dita premurose, avvolto nel calore dei loro sospiri. Il peso ingombrante nel suo petto si scioglie ad ogni spinta, ad ogni parola sussurrata sulla punta delle sue orecchie bollenti, e Yoongi si concede di essere felice, solo per questa notte, di gemere senza paura; singhiozza, il suo corpo così piccolo per contenere tutta la dolcezza con cui lo stanno accarezzando, si sente leggero, come se potesse cadere per sempre e non toccare mai il fondo.

Jungkook e Taehyung si muovono con una sincronia perfetta, le dita di Taehyung strette sulla sua coscia, un’ancora per il piacere che s’infrange su di lui, e la bocca di Jungkook lo distrugge lentamente, marchia Yoongi come loro e unicamente loro, come se il tatuaggio sul suo petto non fosse abbastanza, mai abbastanza – e Yoongi sente una punta d’invidia nel vedere i loro occhi che s’incrociano sopra al suo corpo nudo, il modo in cui sembrano comprendersi senza dire nulla perché sono abituati ad essere così vicini, così esposti solo per l’altro, e forse Yoongi dovrebbe sentirsi fuori posto tra i sorrisi che si scambiano eppure non lo fa, perché esattamente in quel momento non sente di poter appartenere a nessun altro in questo mondo se non al suo giovane Jungkook, al suo piccolo Taehyung – vi amo, pensa, socchiudendo le labbra per non lasciarsi sfuggire una singola parola, vi amo così tanto, vi prego, pensa ancora mentre sente un calore disperato attraversarlo, gli ansimi di Taehyung spezzarsi, un verso strangolato scappare dalla gola di Jungkook, vi prego, amatemi come vi amo io.

Il resto è solo i loro corpi che lo cercano, umidi e stanchi, si piegano su di lui ad avvolgerlo. Lo cercano anche nel dopo.

Sono passate ore e il letto è un disastro, Jungkook e Taehyung sono addormentati ai suoi lati, i loro respiri soddisfatti l’unico suono nella notte e Yoongi pensa che non c’è altra melodia che preferirebbe ascoltare, che è la musica più bella che abbia mai sentito. Eppure non riesce a prendere sonno. I più giovani sembrano percepire il suo respiro irregolare perché Jungkook si gira appena, poggia la mano sul petto di Yoongi – no, sul suo tatuaggio, sui tre fiori che li connettono inesorabilmente – e arriva veloce la mano di Taehyung a raggiungere quella di Jungkook. Le loro dita s’intrecciano lì, lentamente, distrattamente, e Yoongi sente le lacrime pizzicargli le ciglia, scivolare sulle sue guance in silenzio.

E forse dovrebbe lasciare perdere, dovrebbe chiedere a Hoseok, a Namjoon, a Seokjin di fermarlo prima che possano crollare, prima che riesca a trovarsi così a casa, nel sogno che Taehyung e Jungkook hanno costruito per loro e dove lui si è ritrovato, da non voler più andare via. Ma non ci riesce. Il suo corpo è così vuoto, c’è così tanto spazio per farlo crescere, questo sentimento che culla da anni, questo amore terrificante che vuole Taehyung, vuole Jungkook, entrambi senza pudore.

Yoongi sa che non dovrebbe amarli.

 

Ma lo fa ugualmente.

donnievt: (Default)
BTS [taekook], scritta per il vilifest2, sotto il prompt "coccole prima di addormentarsi" di smile.
Rating: safe
Warnings: /



------




La sera è il momento che Taehyung più preferisce in assoluto, da sempre, senza dubbio. C’è qualcosa di speciale nel modo in cui il mondo sembra rallentare solo per qualche ora, dopo le fatiche di un’intera giornata di lavoro – nel modo in cui la gente comincia a sorridere e accalcarsi nei bar per bere qualche bicchiere con amici e colleghi, voci stanche e soffici che si mischiano in un brusio indistinto, così assurdamente familiare, come una sorta di ninna-nanna.

La sera è anche il momento in cui, in dormitorio, dopo ore intense passate a perfezionare coreografie, finiscono per gravitare tutti verso il soggiorno come calamite che non riescono a dividersi nemmeno dopo anni passati insieme – e allora Yoongi propone di ordinare cibo d’asporto mentre esamina con finto interesse l’interno del frigo, Hoseok ha già tirato fuori il cellulare per prenotare e Namjoon ricorda a tutti del nuovo presunto regime alimentare che dovrebbero seguire ma gli trema la voce nel momento esatto in cui Seokjin comincia ad elencare tutti i piatti disponibili, un sorriso beffardo in viso, e quindi finisce per ordinare due porzioni di jjajangmyeon incolpando gli hyung di aver complottato contro di lui. Così si ritrovano tutti a bere soju e mangiare pollo attorno ad un tavolo, Jimin che insiste ad imboccare Taehyung e Jungkook che fa il giro per rubare equamente un pezzo di hotteok a ognuno, esercitando il suo illimitato potere da maknae.

E non capita spesso, di cenare insieme, perché gli orari raramente coincidono e la stanchezza non è affatto clemente, ma quando succede Taehyung sente di non poter provare felicità più grande di questa, nello stare seduto a gambe incrociate e vederli urlarsi affettuosamente contro su chi ha versato la birra sul tavolo e su metà della maglia di Seokjin.

È per questo che, anche adesso che è tutto silenzioso perché è tardi e gli altri sembrano essersi tutti ritirati nelle loro camere, Taehyung continua a sentire un bel calore attraversargli tutto il corpo, complici il buon cibo e le risate un po’ ubriache degli hyung che ancora gli risuonano in testa e lo fanno ridacchiare mentre si sistema sotto le coperte.

È il rumore di qualcuno che bussa alla porta della camera, soffice, a farlo sedere sul materasso in fretta.

“Tae-hyung–”

Taehyung sorride. La sera è il suo momento preferito, sì, anche per questo: perché Jungkook entra senza aspettare che Taehyung gli dica qualcosa, ha i capelli arruffati dalla doccia che così sembrano ancora più morbidi del solito, gli occhiali grandi sul naso, residuo delle sue ultime partite ad Overwatch, una maglia oversize che gli pende dalle spalle muscolose – e Taehyung si è sbagliato, può eccome provare una felicità più grande anche solo guardando Jungkook avvicinarsi al letto silenziosamente, senza sedersi se non quando Taehyung batte la mano tra le lenzuola accanto a lui in un invito muto.

Il fatto è che Jungkook sta imparando lentamente, giorno dopo giorno, a richiedere le attenzioni che ha spesso faticato a domandare, dettando il suo tempo, i suoi spazi, ma Taehyung ha notato qualcosa che lo rende forse un po’ orgoglioso, egoisticamente – perché lo vede spesso, durante il giorno, litigare giocosamente con Jin finché non sono entrambi esausti e senza fiato dalle risate, e vede spesso anche Hoseok e Jimin coinvolgerlo in una coreografia improvvisata e stupida, o, ancora, Yoongi e Namjoon annuire affettuosamente quando Jungkook chiede loro un aiuto per le sue nuove idee. Ma quando cala il buio, ecco, Jungkook bussa solo alla stanza di Taehyung. È come se anche Jungkook riuscisse a percepirla, quella tranquillità che Taehyung ha sempre notato in queste ore, quella solitudine cheta che si trasforma presto in un bisogno assordante di contatto – e allora questo è diventato il momento giusto, nell’oscurità della notte, per lasciarsi andare.

E, a volte, si tratta di parole sussurrate all’orecchio, Jungkook che gli morde la spalla mentre si stringe a lui, le sue mani dappertutto, sui fianchi di Taehyung, sulle sue cosce, tra i capelli a tirarli per incontrare il suo sguardo fremente, le dita febbricitanti che gli accarezzano il corpo e ricevono in risposta piccoli gemiti soffocati; a volte si tratta della necessità di averlo vicino, sentirlo addosso con smania dolce, così dolce che Taehyung sorride sempre, il giorno dopo, mentre si sfiora allo specchio i marchi che Jungkook gli ha lasciato sulla pelle e che ha poi lenito per il resto della notte. Ma a volte, come oggi, si tratta semplicemente di Jungkook che si distende senza parlare, accanto a lui, e gli intima di fare lo stesso, le luci fievoli fuori dalla finestra che illuminano i suoi lineamenti sottili.

A Taehyung tutto questo ricorda il periodo prima del debutto, quand’erano ancora solo dei novellini e la paura di non farcela li divorava dall’interno. A quei tempi era Taehyung che cercava rifugio nei letti dei suoi hyung, quasi ogni giorno dopo il tramonto nella speranza di essere accolto, ma era Jungkook l’unico a cercare rifugio in Taehyung. E non sa perché, forse per la poca distanza tra le loro età, ma Jungkook una sera si era arrampicato sul letto a castello fino al suo materasso, e l’aveva guardato, con quegli occhi enormi e lucidi e una mano a stringere la manica del pigiama; Taehyung aveva capito e gli aveva fatto posto tra le lenzuola e aveva cominciato a mormorare storielle divertenti di quando viveva a Daegu, del modo in cui aveva distrutto il raccolto di suo padre un’estate correndo tra i campi – perché era ingombrante, nel petto di Jungkook, la mancanza di casa. Ma forse, aveva pensato, se avesse sentito la stessa nostalgia nella voce di Taehyung allora si sarebbe sentito meno solo e, magari, avrebbe saputo con chi condividere questo dolore e le sue spalle sarebbero state più leggere, l’indomani, in sala prove. Alla fine Taehyung l’aveva abbracciato e si erano addormentati stretti, il naso di Jungkook affondato nella maglia di Taehyung, il suo respiro caldo a cullarlo per tutta la notte.

Adesso, però, a differenza di quella volta, è Jungkook a tenerlo tra le braccia, e Taehyung ha il viso nascosto nell’incavo del suo collo – respira il suo profumo familiare ma che non appartiene più al ragazzino spaventato di qualche anno fa, no, Jungkook ora è un uomo, inchiostro fresco sulla pelle, e non ha più bisogno di racconti stupidi per alleviare l’angoscia. Eppure, per qualche strano motivo, continua a cercare Taehyung, con tutta la forza che la loro vita concede.

Come adesso, Jungkook con le mani immerse tra i suoi capelli e come onde che si spingono lontane e poi si ritirano, allo stesso modo le sue dita si fanno strada tra le ciocche scure e poi rimangono ad accarezzare la punta del suo orecchio, l’orecchino che ha dimenticato di togliere, arrivano alla rasatura della nuca per poi percorrere il percorso inverso e questo ancora e ancora, un rituale segreto che si svolge nel buio della camera. Jungkook gli bacia la fronte con tenerezza, abbassa ancora il viso quando Taehyung alza lo sguardo.

“Jungkookie–”

Jungkook lo bacia sulle labbra. Mormora qualcosa che Taehyung non riesce a sentire ma sembra tanto una melodia, lenta, dolce. Solo per lui.

Your faint voice that brushes past me.

E Taehyung sente che non è cambiato molto, da quella prima volta nel letto a castello.

Please call my name just one more time.

Perché questa continua ad essere la loro fuga silenziosa, anche dopo anni.

Though I’m standing under the frozen sunset.

E non importa che si nasconda alla luce della luna, perché Taehyung si è sbagliato di nuovo.

I will walk towards you, one step at a time.

Still With You.

È Jungkook, e Jungkook soltanto, la sua felicità più grande.

donnievt: (Default)
BTS [vmin], scritta per il cowt11 sotto il prompt "ti porterò in paradiso".
Rating: nsfw
Warnings: /



------




“What do you want from me? How would you like me?”

Taehyung whispers in Jimin’s ear, his fingers slowly brushing at his entrance, and Jimin twitches and whines pathetically, tugging at Taehyung’s hair weakly, before answering, lips slack from pleasure.

“I want you any way I can have you.”

And Taehyung melts under his words, eyes glazed over with images of them both in all sorts of wild, erotic scenarios, the ones he wants to shift to reality tonight – because no matter how many times they lose themselves between sheets and pillows or hide in cramped, empty closets to get each other off after concerts: there’s still this ridiculous craving on their bodies, fumbling and searching for the other in ways they still have fun discovering, trying and fitting their pieces together carefully like a perfect puzzle, impossibly hungry for all the touches that are just soft and hard enough to make them dizzy and satisfied.

And maybe, Taehyung thinks, that’s because his best friend is also his best lover. Jimin knows him more than anyone else and Taehyung doesn’t feel shy exposing himself fully, heart in his hands, transparent for Jimin to see how he still aches for him.

Jimin struggles with the way Taehyung’s fingers press on his rim, eager to feel them inside him, wanting more, always more. But Taehyung knows how to make love softly, unhurriedly despite the burning feeling of their skin covered in sweat. Knows how to make Jimin beg for his cock with a hint of frustration in his voice – and Jimin lets Taehyung tease him, so desperate for more but having absolutely no desire to rush him. They have all the time in the world, and today’s all about Jimin’s desires.

So Taehyung takes his fingers away, makes them travel all across his body, the softest of touches – and it makes Jimin feel delicate, like his skin is fragile and precious. It makes him feel so adored, almost worshipped, with the way Taehyung keeps calling him angel, my angel.

And then Taehyung smiles as he presses his fingers to Jimin’s soft red lips, and Jimin takes them in his mouth straight away, lets them slip inside to press on his tongue.

“Get them wet for me.” Taehyung’s voice is deep and raspy, and Jimin loves him like this, too dangerous for his own good. Jimin sucks on Taehyung’s digits, taking them deep as his tongue works between them, eyes locked on Taehyung the whole time. He can feel his own spit slipping down over his lips to his chin, and when Taehyung pulls his fingers away, there’s a trail of saliva still connecting them to Jimin’s gorgeous mouth. “Good boy. You’re so good for me.”

Taehyung then kisses him as Jimin’s legs spread wider still beneath him. He takes his time to admire Jimin, how he’s beyond pretty in his pleasure, eyes heavy lidded and chest and neck a gentle rosy pink, swollen lip caught between his teeth and his hair fallen forward in his face – and he looks utterly wrecked with anticipation. Love looks so good on him.

“I’m gonna take you to heaven, angel. Just like you deserve.” Taehyung says, reaching down, pressing the pad of his wet pointer finger to Jimin’s entrance, again.

Jimin just smiles, sweet, hot – ethereal. Almost divine. So perfect for him.

“I already am, Taehyungie.”

donnievt: (Default)
BTS, scritta per il cowt11 sotto il prompt "luogo: terminal dell'aereoporto all'alba".
Rating: safe
Warnings: /



------




“È la prima volta che prendi un aereo, Taehyungie?”

Taehyung annuisce nel momento in cui Jimin si lascia andare sulla sedia accanto alla sua, le braccia spavaldamente poggiate sullo schienale e le gambe alzate per poterle poggiare sul trolley che si porta dietro da stamattina. La sua voce ha ancora una tinta soffice, assonnata, e Taehyung sa che Jimin non è affatto un tipo mattiniero – ha imparato a capirlo dal modo in cui Jimin lo sveglia ogni giorno per andare in classe, scuotendolo con poca forza e arrendendosi quando Taehyung lo tira sotto le coperte vicino a sé, per altri cinque innocui minuti di riposo – e per questo apprezza ancora di più il fatto che abbia avuto il pensiero di sederglisi accanto, probabilmente notando il modo in cui Taehyung continua a torturarsi le mani e a lanciare occhiate preoccupate verso la vetrata davanti a sé, in cerca di rassicurazione negli aerei che spiccano il volo e in quelli che atterrano, con lo sfondo incantevole dell’alba che inizia appena a sorgere tra tutti quei cavi e quelle piste enormi, tingendo il cielo di un rosa pallido che si mischia immediatamente all’azzurro chiaro del mattino.

“Oh, hyung, persino io ho fatto un volo prima di te?”

Stavolta è la voce squillante di Jungkook a raggiungerlo, e Taehyung può vedere il suo viso spuntare tra la propria testa e quella di Jimin, gli occhi vispi e grandi, un cappellino a coprirgli tatticamente i capelli disordinati – a differenza di Jimin, Jungkook non ha nessun problema ad alzarsi presto, probabilmente anche grazie alla sua terribile timidezza che lo fa entrare in doccia agli orari più assurdi, solitamente ben oltre mezzanotte o molto prima dell’orario di lezione, per evitare che gli altri hyung possano disturbarlo o giocargli brutti scherzi tipo nascondergli i vestiti da qualche parte.

Taehyung sente una punta d’invidia, a sapere di essere l’unico tra tutti loro a non aver mai volato da nessun’altra parte – la sua reputazione di sempliciotto di Daegu che ha da sempre vissuto in una fattoria non sembra abbandonarlo nemmeno per situazioni di questo genere. Non ha mai lasciato la Corea – ha a stento lasciato il suo paesino per trasferirsi nei dormitori di Seoul – e il pensiero di dover andare così lontano dai suoi genitori, ancora più lontano di prima, gli mette un peso inusuale nel petto, la nostalgia di casa più forte dell’eccitazione al pensiero di vedere posti nuovi.

Jimin sente la sua tensione e lo guarda preoccupato, prima di cingergli le spalle con un braccio, stringendolo a sé.

“Dai, Taehyungie! Jungkook ci porterà a mangiare del buon cibo in America, dato che lui c’è già stato, non è vero?”

Jungkook è colto alla sprovvista – e Taehyung non è nemmeno certo che il più piccolo conosca così tanti posti in cui mangiare bene, dato che quel ragazzino sembra vivere di spaghetti istantanei e spiedini d’agnello – ma annuisce lo stesso, le labbra che si stirano lentamente per mostrare i suoi denti da coniglio, e aggiunge la sua mano come leggero conforto sul braccio di Taehyung.

Ad avvicinarsi battendo le mani per attirare la loro attenzione, invece, è Seokjin, una consumata giacca di jeans legata in vita. Indica il terminal del loro volo, completamente vuoto eccetto per Namjoon e Yoongi che sono già lì davanti, ad aspettare il via per l’imbarco.

“Bimbi, è quasi ora. E per favore, siate più maturi di Namjoonie e non dimenticate niente.”

Jimin ride per l’espressione offesa di Namjoon, che anche a quella distanza ha sentito la voce di Seokjin e si è stretto ancora di più nel bomber che indossa, mentre si alza e si avvia a raggiungere gli altri. Taehyung è l’ultimo a mettersi in piedi, gli occhi che seguono le figure dei suoi due amici che adesso stanno giocando con la valigia di Jungkook, finché non sente la mano di Seokjin raggiungere la sua e fargli scivolare furtivamente qualcosa nel palmo: è un pacchettino di caramelle alla fragola, le sue preferite, e nella confezione speciale sono compresi anche dei piccoli adesivi di Pororo assolutamente adorabili – che Jungkook gli invidierà da ora fino alla morte, e gli darà un notevole vantaggio in quanto merce di scambio quando dovrà convincerlo a lavare i piatti al posto suo.

Taehyung alza lo sguardo per incontrare quello di Jin, che non perde tempo a fargli l’occhiolino e a mettere l’indice sulle labbra, shhh, prima di scompigliargli i capelli affettuosamente. C’è una muta complicità nel modo in cui lo guida verso il punto dove gli altri sono riuniti, e Taehyung sente un sorriso flebile crepitargli sulla bocca al pensiero di Seokjin che lo pensa tanto da comprargli qualcosa, mentre probabilmente stava strafogandosi di dolci alla caffetteria dell’aeroporto.

“Dov’è Hobi-hyung?” domanda Jimin, mentre Namjoon è impegnato a distribuire i biglietti a tutti loro con un’attenzione maniacale nel controllare i codici del loro volo.

“In bagno” risponde Yoongi, “dice che quello sull’aereo gli fa senso, e non riesce a resistere per– quante ore sono, esattamente?”

“Uh, tredici ore.”

E nel momento esatto in cui Namjoon parla, Taehyung torna a sentire la tensione irrigidirgli le ossa. Tredici ore sono veramente tante – e ha paura di passare tutto quel tempo a pensare, seduto immobile in un sedile duro perché ancora l’agenzia non ha abbastanza denaro per pagare un viaggio in comode poltrone di pelle. Non ci è più abituato perché la sua routine finora è sempre stata un susseguirsi di esercizi di canto fino ad avere la voce roca, coreografie da perfezionare in sala prove finché i muscoli non fanno troppo male, una cena veloce e poche ore di sonno, e di nuovo alzarsi, ripetere, dormire, l’estenuante vita da rookie appena dopo il debutto – ed è stata un’ottima cura per tenere lontano i pensieri che solitamente lo disturbano, soprattutto quando è da solo e gli mancano le carezze di sua madre, gli strilli di suo fratello e sua sorella, gli manca il tono gentile di suo padre che gli chiede come va, se a scuola è tutto okay, se gli hyung lo trattano bene.

Ma tredici ore sono quasi interminabili, e Taehyung ha già paura di non avere altra opzione che pensare, pensare, pensare, e sentire ancora una volta la mancanza di casa, così devastante nel suo corpo da ragazzino.

Taehyung sa che Yoongi e Namjoon hanno notato il suo cambio d’umore, perché Namjoon si ferma a guardarlo da sotto al cappuccio della felpa che ha alzato per coprire la chioma spettinata. “Taehyung-a…”, comincia, ma in quell’istante Taehyung sente qualcosa buttarglisi sulle spalle, sbilanciandolo appena e facendogli quasi perdere l’equilibrio. È Hoseok, e lo sente dal modo in cui lo stringe, le braccia avvolte attorno alla sua vita come se non volesse lasciarlo scappare. Lo sente dalla risata cristallina, che lo fa voltare per incontrare i suoi occhi attenti. Anche se è appena tornato dal bagno, Taehyung sa che Hoseok ha già compreso tutto ciò che sta accadendo dal solo modo in cui ha osservato gli altri attorno a sé e lo ha guardato poi – con dolcezza, la stessa che usa quando rimprovera Jimin di non aver mangiato tutto il piatto di jjajangmyeon, o quando rimbecca Jungkook per non aver chiesto un’ulteriore pausa durante gli allenamenti quando si sentiva stanco.

“Taehyungie si siede accanto a me! Abbiamo i posti vicini, vedi?” e gli mette sott’occhio tre biglietti, numero 26, 27, 28, “così possiamo rubare il pc a Yoongi-hyung, che sta nell’altro posto, e leggere tutte le imbarazzanti canzoni che scriveva quand’era più giovane.”

Il sorriso di Hoseok è contagioso, e Taehyung vede che anche Yoongi sta ridendo, nonostante abbia dato una pacca scherzosa e anche abbastanza potente alla spalla di Hoseok, “yah Hob-a! Oppure potremmo vedere i video di quando hai deciso di imparare la danza del ventre, sono decisamente più interessanti. Cosa ne dici, Taehyungie?”

Taehyung sente di non poterla trattenere, la risata che ha cominciato a fremergli nel petto, perché è abituato all’eterno battibecco tra Hoseok e Yoongi ma questa volta è ancora più affettuoso del solito, ha un calore ancora più familiare: Yoongi ha la battuta pronta e le sue dita gli sfiorano appena la mano, in un tocco silenzioso, e la voce di Hoseok gli trilla nelle orecchie come una campana allegra, ed entrambi lo guardano come se fosse la cosa più preziosa che hanno – no, tutti lo stanno guardando come se dovessero proteggerlo, il loro splendido Taehyungie che ride per la prima volta quella mattina con un pacchetto di caramelle alla fragola in tasca e il calore delle loro mani addosso. E le loro spalle si rilassano all’unisono, sospirano, si scambiano guardi vittoriosi come se avessero appena finito di registrare un pezzo. Così attenti ai suoi bisogni e alle sue paure come nessun altro – forse perché anche loro sono spaventati, in un modo o nell’altro, e trovano conforto in questo tenero caos che sono diventati i Bangtan.

“Sei di nuovo tra noi, Taehyungie.”

Sussurra Namjoon, proprio appena una voce sconosciuta dall’altoparlante annuncia che il loro gate è stato aperto, e potranno cominciare ad imbarcarsi.

Gli tende la mano, Namjoon, e Taehyung non esita ad afferrarla, stringendola forte in un muto segno di ringraziamento. Jimin gli si affianca, gli sorride senza stanchezza, e Jungkook si offre di portare il suo borsone con la scusa di allenare un po’ i muscoli delle braccia. Sente lo sguardo premuroso di Seokjin sul viso, ad assicurarsi che adesso sia veramente tutto a posto, e Hoseok e Yoongi sono appena dietro, e lo seguono mentre Namjoon li guida verso il check-in, le dita ancora intrecciate a quelle di Taehyung.

E Taehyung non ha più paura. Perché c’è la sua altra famiglia, ora, insieme a lui.

donnievt: (Default)

Originale [montwins], scritta per il cowt11 sotto il prompt "luogo: scuola durante le vacanze".
Rating: safe
Warnings: /



------





“Va bene, allora adesso aspettami qua.”

Yoshio lo dice con voce ferma, mentre sta armeggiando con la pesante catena, attorcigliandola intorno alla ruota della bici in modo che non possano rubarla. Le mani di suo fratello si muovono svelte e anche un po’ nervose, e Yukio se ne accorge perché Yoshio non riesce ad agganciare la chiusura né la prima, né la seconda, né la terza volta, per poi riuscirci alla quarta, dopo aver sbuffato rumorosamente.

“Che? Te lo scordi! Perché mi hai chiesto di venire, allora?”

“Non ti ho chiesto di venire, infatti. Mi sei venuto dietro come fai sempre.”

Yukio rotea gli occhi al cielo. Non sa perché suo fratello debba sempre fare così – fare finta che la sua presenza lo infastidisca, quando invece è il primo a cercare la sua compagnia se deve andare a mangiare una ciotola piena di ramen alla piccola bancarella a due passi da casa, o se ha bisogno di andare in biblioteca a recuperare un paio di libri. Eppure spesso lo tratta come se non fosse così, come se l’esistenza stessa del suo gemello non sia la cosa migliore che gli sia potuta capitare in vita sua – e Yukio sa che lo è, non c’è posto per l’umiltà in casa Umon. Per fortuna Yukio lo conosce meglio di quanto Yoshio conosca sé stesso e quindi fa sempre in modo di prendere bici e zaino e seguirlo dovunque abbia intenzione di andare, incurante dello sguardo affilato che ogni tanto Yoshio gli rivolge.

Come quello di adesso.

“Entro con te, così saluto anch’io il senpai Mio.”

Non che abbia chissà quanta voglia, Yukio, di vedere Mio Furihata. Non ha particolare simpatia per il miglior nuotatore della loro scuola, nonostante si siano visti sì e no un paio di volte tra i corridoi. Ma Yukio conosce abbastanza per sapere che non gli piace – e niente ha a che fare col fatto che sia più grande di un paio di anni e possa permettersi di prendere i panini più buoni in caffetteria, e soprattutto niente ha a che fare col fatto che suo fratello Yoshio abbia una palese cotta per lui: una di quelle serie, che gli fa aspettare l’intervallo solo per poter trovare una scusa e salire al piano delle classi di terzo nella vana speranza di incontrarlo mentre esce dal bagno; o che, ad esempio, lo fa venire a scuola, nel bel mezzo delle vacanze estive quando tutto è ancora chiuso e il caldo sarebbe in grado di sciogliere anche le pietre, solo per poter restituire un taccuino che il senpai Mio gli ha prestato. Come se non potessero vedersi da tutt’altra parte – magari in una gelateria, così potrebbero anche regalarsi un paio di coni gratis. Ma il senpai Mio è strano, veramente strano e vuole probabilmente approfittare dell’incontro per utilizzare la piscina scolastica, e Yoshio non ha mai la forza di contraddirlo.

E quindi adesso Yukio è costretto a vedere Yoshio che si sta già asciugando con il dorso del polso la fronte sudata, guardandosi attorno alla ricerca del senpai. Ma non appena sente le parole di Yukio, Yoshio s’infervora di nuovo e gli punta il dito contro fino a toccargli il petto.

“No! Tu al senpai Furihata non hai davvero niente da dire!”

Yukio aggrotta la fronte. “E cosa vuoi che faccia? Che ti aspetti qua, sotto il sole cocente?”

Yoshio sembra pensarci per un attimo, vagliando tutte le opzioni possibili che non comprendano l’imminente colpo di calore per suo fratello.

“…d’accordo, puoi entrare, ma dal senpai ci vado da solo.”

Per la seconda volta quella mattina, Yukio alza gli occhi al cielo, e anziché rispondergli si avvia verso l’ingresso sperando di trovare un minimo di frescura all’interno dell’edificio.

Non sa esattamente cos’è questo disagio che ha cominciato a montargli dentro durante la colazione, quando Yoshio gli ha detto che sarebbe andato a scuola perché doveva incontrarsi col senpai Mio – è una sensazione che lo mette in allerta più del solito, gli fa osservare il suo gemello con un’attenzione che solitamente non ha, per cogliere dettagli di cui non sa proprio che farsene, ma che balzano ugualmente ai suoi occhi con un fastidio lampante.

È fastidioso, infatti, sapere che Yoshio ha indosso i migliori jeans che possiede, con gli strappi all’altezza delle ginocchia, e una camicia con una elegante fantasia floreale appena aperta sul petto – e che stia così dannatamente bene in questo abbigliamento fintamente casual, che invece ha passato ore e ore a scegliere il pomeriggio prima, piroettando davanti allo specchio del bagno. È fastidioso sapere anche che abbia rubato un po’ del profumo di papà, quello dalla boccetta costosa che viene utilizzata solo per le occasioni speciali, e che quindi ora Yoshio sappia di un misto fruttato ma mascolino che cozza un sacco con la sua aria timida e nervosa, le mani strette attorno al taccuino e lo sguardo irrequieto a guardare per i corridoi in cerca della chioma nera del senpai.

Ma quello che lo infastidisce di più è che da qualche giorno Yoshio ha i capelli biondi, biondissimi, quasi color platino, anziché i soliti ciuffi castani che condividono geneticamente, ed è il frutto di una notte passata tra tinte e polveri decoloranti – questo semplicemente perché i pettegolezzi che ha sentito dalle ragazze della classe promuovono il senpai Mio come amante dei capelli biondi. E Yukio trova che sia ridicolo, che Yoshio abbia addirittura colorato la sua zazzera ordinata per questo – come se non sapessero tutti che il senpai Mio non ama i capelli biondi in generale, ma i capelli biondi del senpai Hachirou, l’unico per il quale abbia occhi e orecchie. Yukio non sa davvero quali chance Yoshio possa sperare di avere, a confronto dell’amicizia millenaria che c’è tra il senpai Mio e il senpai Hachirou. Sa solo che il suo gemello sembra uno stupido, ad andare dietro ad un senpai per il quale, a modesto parere di Yukio, non ne vale nemmeno la pena. Non è neanche poi così bravo a nuotare, mentre Yukio, invece, a ballare se la cava decisamente di più. Ma suo fratello non apprezza il vero talento, apparentemente.

I loro passi rimbombano in maniera inusuale nella scuola completamente vuota, e le scale deserte sono quasi inquietanti viste così, senza nessun nugolo di studenti a spingersi e sgomitare per arrivare in cortile, senza grida e schiamazzi e i giocatori del club di pallavolo che si passano la palla in corridoio. Yukio non è nemmeno sicuro che ci sia davvero qualcun altro a parte loro due. Rivolge uno sguardo interrogatorio al suo gemello, trovandolo a torturarsi le mani con il labbro inferiore stretto tra i denti – una vista completamente diversa rispetto all’autoritario Yoshio cui è abituato, quello che solitamente gli lancia uno sguardo di disappunto da sopra le lenti degli occhiali. Adesso sembra così fragile e vulnerabile, solo per il senpai.

E per un attimo Yukio sente avvamparsi di rabbia.

“Allora? Quando ti ha detto che sarebbe venuto?”

Yoshio non lo guarda nemmeno, troppo impegnato ad alzare il viso per vedere fino in fondo al corridoio del terzo piano.

“…mi ha detto che sarebbe stato in 3-C. Io vado, ma tu rimani qua.”

E Yukio ha tutta la voglia di ribattere e dire che assolutamente no, non lo lascerà di certo andare dal senpai Mio senza di lui, perché non ha proprio voglia che si scambino un abbraccio per salutarsi o che si sfiorino le dita mentre Yoshio gli restituisce il taccuino, o ancora che Yoshio guardi il senpai con quegli occhi adoranti così come fa sempre durate le gare di nuoto, che scoppi in quella risata che solo il senpai sa tirargli fuori – e Yukio ci ha provato tantissime volte, mille scherzi e mille battute, ma quell’espressione di felicità perfetta non è mai rivolta verso di lui. Yoshio guarda sempre altrove, cerca dove non dovrebbe anziché accorgersi che Yukio è proprio lì, lo è stato da anni e lo sarà probabilmente finché Yoshio non si stancherà di vedere quel volto così simile al suo accanto a lui, allo specchio.

A volte Yukio se lo chiede – se Yoshio riesca a vederlo, attraverso tutte le scuse che accampa per accompagnarlo e non lasciarlo mai da solo, attraverso tutte le volte che paga per la ramune al suo gusto preferito nel mercatino del quartiere. Attraverso i complimenti che Yukio gli ha fatto per quel biondo appena nuovo, nonostante gli si stringesse il cuore a quella vista ogni minuto di più, perché in quel momento anche quel particolare futile che li ha resi simili sin dalla nascita era scomparso. L’ennesimo.

Chissà se riesce a vederlo – quell’amore silenzioso che gli scappa dalle mani ad ogni movimento e che non riesce a nascondere, non importa quante volte tenti di farlo.

Forse no. Forse non lo vede affatto, e forse è meglio così.

Perché, alla fine, il senpai Mio nuota veramente bene, e Yukio non vuole altro che vedere quel sorriso sulla bocca di Yoshio, anche se non è lui a farlo sbocciare come invece desidera disperatamente. Gli basta che sia lì.

Incrocia le braccia, allora, e si appoggia con la schiena alla parete, guardando fuori dalla grande finestra che da sul campo di calcio.

“Vai, svelto. Ti aspetto qui.”

Come sempre.

E per un attimo lo coglie, il guizzo delle labbra di Yoshio che scattano verso l’alto, in una sorta di ghigno soffice, dedicato solo a lui. E poi lo vede semplicemente balzare in direzione della 3-C, alzando una mano verso di lui in un gesto che gli indica di stare fermo dov’è – come se Yukio potesse mai andarsene senza quella massa di ciuffi biondi.

“Faccio subito, Yu-chan!”

Yukio non sa davvero da dove l’abbia preso, quel nomignolo che non usano più da anni, ma in un certo qual modo, nel caldo asfissiante della scuola deserta, lo fa sorridere come uno scemo.

E gli va quasi bene così.

donnievt: (Default)
BTS Fallen Angel AU [taejin], scritta per il cowt11 sotto il prompt "il paradiso senza di te non ha senso".
Rating: safe
Warnings: /



------




Il sole fa lentamente capolino tra le sagome degli alti palazzi di Seoul, e i raggi che filtrano dalle tende socchiuse tingono appena la stanza di un ocra pallido, toni caldi che danzano silenziosamente sugli angoli della scrivania, su lenzuola sfatte e i cuscini sgualciti, illuminando quanto basta perché Jin possa accogliere tutto ciò che di nuovo i suoi occhi stanno osservando.

Jin è già sveglio da un po’, nonostante la stanchezza della notte precedente – più che evidente nei lividi che nota stargli sbocciando sui fianchi, nei segni di denti sulla punta delle dita, e nei marchi rossi sul collo che è sicuro sarebbe in grado di vedere se solo avesse la forza di alzarsi e guardarsi allo specchio. Ma c’è una certa pace, una calma insolita nel poter aprire gli occhi all’alba e respirare piano, crogiolarsi nel calore del corpo nudo accanto a sé, ancora immerso nel sonno, senza nessun rumore a disturbare eccetto il soffio leggero dei loro respiri.

È un balsamo che cura ferite che Jin non sa ancora di avere, dopo le sere che ha passato nella pioggia, irrequieto, il naso rivolto verso il cielo nella speranza di un segno, qualcosa che potesse ricordargli di non essere solo.

Non lo è più, adesso, e a rammentarglielo è Taehyung, addormentato sotto le coperte, che gli mostra la schiena scoperta, mentre le luci mattutine ballano tra i suoi ciuffi biondi e scarmigliati. E Jin, che ha sperimentato una varietà indecifrabile di emozioni negli ultimi giorni, una più intensa dell’altra fino ad esserne ingoiato completamente e non percepire più il battito del proprio cuore, ora sente nient’altro che una serenità improvvisa fiorirgli dentro al petto.

C’è qualcosa di etereo in quella visione, forse anche a causa della consapevolezza di ciò che Taehyung è – no, di ciò che è stato, della sua appartenenza originaria all’eliso, del sangue celeste che gli scorre sottopelle, del fatto che abbia potuto vivere migliaia di anni, e splendere di luce propria nelle sfere più alte del piano immateriale – per poi diventare, invece, carne e ossa, trasformarsi e perdere tutti i privilegi dell’eden, mutare in natura e scopo. E di questo, Jin ne è la ragione.

C’è ancora qualcosa, però, che tradisce la natura non umana di Taehyung, qualcosa che rimarrà impressa sulla sua pelle come un monito severo di ciò che ha fatto, il segno della sua superbia, forse, di come abbia rinunciato al paradiso per potergli rimanere al fianco: sono due grandi cicatrici, nere come pece e assolutamente simmetriche, che gli attraversano la schiena fino alle scapole. E anche se sono solo sporchi residui della magnificenza delle sue ali, infondono ugualmente a Jin una certa riverenza – perché è quello il prezzo che Taehyung ha pagato per lui, e Jin ancora non sa spiegarsi come Taehyung abbia mai potuto decidere di disfarsene, barattarle con la precarietà che la vita di Jin può offrire, una bellezza che non potrà mai essere così maestosa come quell’ammasso di piume bianche che l’ha accompagnato per millenni.

Jin tende la mano d’istinto, sfiora i lembi ruvidi delle ferite con dita tremanti – e quasi si aspetta che sanguinino, piccole lacrime di liquido rosso a bagnare le lenzuola, perché è come se fossero ancora fresche, la carne pulsante sotto i polpastrelli. Come se fossero destinate a non guarire mai e, magari, è davvero così. L’eden non perdona i traditori. E fa sì che nemmeno i loro corpi lo facciano.

E per un attimo, solo per un attimo, Jin si sente attraversare da una pressione inusuale, una che lo affossa nel materasso e lo paralizza, una scarica veloce che gli vibra per tutto il corpo: sente ogni nervo bruciare con un’intensità devastante, il calore raggiungergli il viso, le labbra strette per trattenere un sibilo di dolore che lo costringe a serrare gli occhi. E lì, nel buio delle sue palpebre socchiuse, come un’esplosione che lo acceca con il suo bagliore devastante, lo ricorda – è il sogno che l’ha tormentato qualche notte prima. Le stesse immagini si susseguono con nitidezza nella sua mente, come un filmato fatto scorrere a rallentatore, e Jin si sente improvvisamente mancare.

 

È una stanza assolutamente buia, eppure riesce a vedere chiaramente la figura che è lì in ginocchio, proprio al centro, come se splendesse di luce propria, tanto brillante da poter essere scorto nell’oscurità: è Taehyung, ed è raggomitolato su sé stesso, le mani strette a pugno sul petto nudo, la schiena arcuata che si rivolge al soffitto. Le sue ali sono proprio lì, enormi e ripiegate sui suoi fianchi, ma non hanno lo splendore latteo e angelico delle illustrazioni nei libri religiosi, no: sembrano scolorire, il loro chiarore sbiadire man mano verso un nero cupo, quasi funereo, e Jin immagina che sia quella la prima punizione che deve subire un traditore – vedersi privare del chiarore che l’ha sempre avvolto, come reminiscenza del suo compito di giudice divino, e sprofondare nell’oblio di una vita affatto immortale, piena unicamente di vizi e peccati, gli stessi di cui si sarebbe macchiato, e da cui ritornerebbe come loro vittima.

Ma è nel momento in cui quelle ali scure vengono strattonate con prepotenza da una forza invisibile, piume leggere che si accartocciano e cadono sul pavimento, che il cuore di Jin comincia a battere più forte fino ad assordargli le orecchie: non lo sente, l’urlo di Taehyung, ma non ha bisogno di farlo – a bastare è l’immagine del suo viso, contratto da un dolore insopportabile mentre entrambe le ali gli vengono strappate con un colpo secco, la schiena inarcata in una curva perfetta, ed è una tortura crudele, tutto quel sangue che si accumula alle sue ginocchia, le lacrime bollenti che gli scorrono sulle guance, il corpo scosso da spasmi disperati e atroci. Jin ha l’istinto di allungare la mano per raggiungerlo, perché quello spettacolo straziante possa finire con Taehyung tra le sue braccia, lontano dal giudizio di occhi ultraterreni.

 

Ma, nel sollevare le palpebre, si ritrova nuovamente nel suo letto, come all’inizio di quello stranissimo viaggio onirico – che Jin immagina essere frutto del legame che lui e Taehyung hanno sempre condiviso e che adesso si manifesta con più potenza, e lo porta a sperimentare le sue stesse emozioni. Questa, però, è l’unica che continua a riaffiorargli alla mente, in maniera ossessiva, come se fosse l’ultima – perché, da quel momento in poi, Taehyung è diventato umano, e il loro vincolo mortale, comunissimo.

Anche questa è una punizione, non per il traditore, ma per colui che l’ha portato a tradire: Jin sarà per sempre tormentato da queste visioni, perché l’espressione sofferente di Taehyung possa non abbandonarlo mai e Jin possa vivere col rimorso di averlo condannato a questa pena lancinante.

È davvero un peccato, allora, che Jin non senta alcun tipo di rimorso, nonostante questi ricordi – non quando c’è Taehyung che lo guarda da sopra la spalla, appena sveglio, i capelli sparpagliati sul cuscino e un sorriso sornione sulle labbra, ed è l’immagine più incantevole che Jin abbia mai visto. Lo rifarebbe, questo peccato, ancora e ancora, se questo gli consentisse di ammirarlo sotto le luci calde del mattino, con l’espressione riposata e soddisfatta – dalle ore di sonno, forse, o dal modo in cui si sono stretti la notte precedente. Non c’è posto per il rimorso quando Taehyung lo osserva con le fossette leggere che gli nascono ai lati della bocca e la voce appena impastata che lo chiama, Jinnie, primo pensiero al mattino.

“Mmh– cosa stavi facendo?” Taehyung si posiziona con la schiena che poggia sul materasso, ma non gli stacca gli occhi di dosso per un solo secondo, “avevi una faccia stupida.”

La pacca scherzosa di Jin gli arriva in pieno petto, e Taehyung ridacchia a vedergli sul viso un’espressione fintamente offesa, le labbra socchiuse, piene e rosa, protese in un piccolo broncio teatrale.

“Yah, Taehyungie! Ti sembra il modo di parlare? Potresti benissimo essere più piccolo di me!”

Ed è vero: a differenza di Jin, che dimostra di essere più giovane dei suoi ventiquattro anni ma ha ugualmente i tratti inconfondibili di un uomo, l’aspetto di Taehyung somiglia tremendamente a quello di un ragazzino, nonostante abbia probabilmente vissuto millenni – sono i lineamenti infantili del suo viso, il suo corpo esile e non molto muscoloso; ma soprattutto, pensa Jin, sono quegli occhi assurdamente azzurri, di un chiarore singolare, che lo ringiovaniscono e donano alle sue fattezze l’innocenza degli angeli – ma, allo stesso tempo, in quello sguardo affilato Jin percepisce qualcosa di più maturo, la saggezza di un essere celestiale che ha da sempre osservato le gesta umane dall’alto della sua conoscenza, e ha deciso di unirsi ad esse senza rimpianti, rinunciando al nome che ha portato sul petto per così tanto tempo.

L’hanno scelto insieme, infatti, Taehyung.

 

“Non importa, Jinnie, scegline semplicemente uno che ti piace”, e poi, “sarai tu che lo userai, voglio che sia tu a deciderlo. Così che possa essere più facile per te, chiamarmi.”
“Taehyung, allora.” e Jin non gli ha mai detto che quel nome lo ha sussurrato perché lo sente scorrergli sulla lingua da giorni, come se non fosse mai stato in grado di sputarlo se non esattamente in quell’istante, davanti a quella richiesta, come se non ne fosse mai stato cosciente pur sentendolo tra le dita.
“Va bene”, un sorriso grande che gli scopre tutti i denti. “È Taehyung.”
E, “ha qualche significato?”
‘Andrà tutto bene. I tuoi desideri si avvereranno.’
Jin non ha più nessun dubbio.

 

Jin sente Taehyung spostarsi lentamente tra le coperte, mettersi sul fianco ed avvicinarsi finché non ha il viso nascosto nell’incavo del proprio collo, braccia allungate per potersi stringere solo un altro po’. Il suo respiro gli solletica l’orecchio, e Jin lo percepisce anche senza vederlo, il sorriso giocoso di Taehyung che gli sfiora la pelle. È il suo modo di assaporare la mattina, pigramente, nel calore di un piccolo appartamento di Seoul, accanto alla persona con cui ha condiviso gemiti e carezze la sera prima – una delizia di cui non ha mai potuto godere in paradiso e che cerca di recuperare adesso, inspirando quanto più può quell’odore di casa che gli offre Jin.

“Anche oggi mi prepari la colazione?” domanda Taehyung, il naso che percorre la linea morbida del profilo di Jin fino alle sue labbra. È un gesto così familiare che sembra l’abbia fatto da sempre, e anche le loro bocche, nel momento in cui si trovano per un soffio leggero, si incastrano in maniera assoluta e perfetta, completa, come tutto il resto nell’incrocio dei loro corpi. Jin annuisce nel bacio, silenziosamente, per poi staccarsi appena.

“Non ti manca tutta l’ambrosia– o qualsiasi cosa bevevi lassù?”

Taehyung scoppia in una risata rumorosa, le labbra distese a mostrare i denti, e a Jin sembra di sentire una melodia delicata, candida, mirto e miele che si mischiano nella voce profonda di Taehyung – che gli freme nel petto e si riversa sulle labbra di Jin in un secondo bacio, e l’attimo dopo sono entrambi persi nel sussultare delle loro spalle, a ridacchiare come stupidi, finalmente liberi e insieme e incapaci di contenere tutta la gioia che gli scorre sulla pelle, che gli riempie i petti e trilla nei sorrisi che si scambiano, nelle loro mani che si cercano nell’intricato groviglio di lenzuola.

“Affatto,” gli risponde infine Taehyung, la linea morbida degli occhi che tende verso l’alto, segno di una felicità che gli trasforma i lineamenti soffici senza nessuna paura, “il paradiso è noioso. Nessuno cucina bene come te, non abbiamo un Famicom e non posso batterti su Mario Kart– che razza di vita è quella?”

E poi si affretta ad aggiungere, non appena vede la smorfia comicamente esasperata di Jin, gli occhi che si alzano verso il cielo in un’espressione di divertito disappunto – “Credimi, Jinnie”, il tono della sua voce è deciso, serio, il suo sguardo con un’intensità che lo àncora tra le coperte, “è molto più un paradiso questo, se lo vivo con te, che quello in cui sono cresciuto in tutti questi millenni.”

E Jin gli crede. Non fa nessuna fatica, perché è lo stesso sentimento che ha sentito crescergli nel petto giorno dopo giorno e che lo ha reso impotente di fronte a quella forza così devastante, ma che lo ha anche reso vivo per la prima volta, ubriaco di quell’azzurro che lo scruta e lo ammira come se fosse lui ad essere bello ed etereo e trascendere i mondi – come se fosse lui, e non Taehyung, ad avere la perfezione di un angelo, l’eleganza celeste della creatura più divina del creato.

Jin lo osserva, mentre Taehyung si stira al centro del letto, i muscoli ancora leggermente assopiti e forse appena doloranti, prima di mettersi seduto all’estremità del materasso, ciondolare un attimo i piedi e infine alzarsi, la sua figura splendida a stagliarsi contro la luce del sole che filtra dall’unica finestra della camera. Splende anche così, Taehyung, senza alcun bisogno di appartenere all’eden – anzi, splende ancora di più, se possibile, per il sorriso spontaneo che è destinato solo a lui, e che lo rende così dannatamente umano.

Ma la mano di Jin si tende di nuovo, attirata irrimediabilmente da quelle cicatrici che macchiano la schiena di Taehyung, e si poggia sul piccolo spazio tra di esse, con devozione.

“Fa male?” domanda.

E Jin sa di non riferirsi al dolore di quelle ferite troppo nere per poter essere naturali, no. È l’ultima cosa che si permette di domandargli, l’ultima cosa che vorrà sapere: se Taehyung si sia pentito della sua scelta. Ma Taehyung, semplicemente, si volta per nascondergli la schiena ed essergli totalmente di fronte. La cerca lentamente, la mano che Jin stava facendo sostare tra i segni delle sue debolezze, e la stringe piano, sfrega il pollice sui polpastrelli come a cancellare qualsiasi traccia del passato. Sono movimenti controllati e decisi, Taehyung si prende tutto il tempo possibile per far sì che Jin capisca. E poi, solo quando ha la sua totale attenzione, quando sa che nella sua mente non c’è nient’altro se non l’estasi di questo loro legame indistruttibile nonostante i loro mondi così differenti – solo quando sa di avere, totalmente, fatalmente, anche il suo cuore, lo dice.

“Non sono mai stato così felice, Jinnie.”

donnievt: (Default)
BTS [taegi], scritta per il cowt11 sotto il prompt "litigio".
Ps. Per Cain, che non mi fa sentire sola in quest'ossessione!
Rating: safe
Warnings: /



------




“Non posso più farlo. Non con te.”

Yoongi non si volta nemmeno, continua a guardare con finto interesse la scrivania stipata di roba totalmente inutile, bicchieri di caffè americano ormai risalenti a settimane fa, piccoli souvenirs da tutte le parti del mondo, cataste di fogli che non ha ancora avuto l’audacia di buttare.

Non si è mai ritenuto un tipo incredibilmente coraggioso, Yoongi, nonostante l’immagine che porta sugli stage e davanti alle telecamere – quella del rapper esile, troppo magro all’interno di felpe assurdamente grandi, che sorprende quando digrigna i denti e sputa parole crudeli con una forza che nessuno si aspetterebbe da quel corpo così fragile allo sguardo – e nonostante la presenza di sei altri membri dietro le sue spalle, dove hanno sempre cercato protezione durante meetings particolarmente estenuanti o situazioni snervanti da cui credevano di non riuscire ad uscire – persino Namjoon e Seokjin si fiderebbero di lui ad occhi chiusi, e lo cercano senza timore quando hanno bisogno di un’opinione sfrontata, senza peli sulla lingua, o quando hanno di nuovo problemi con un ambiente che sembra non volerli mai lasciare in pace, che non concede un attimo di respiro. Perché sanno che Yoongi sarà sempre in grado di lottare per tutti loro, non importano le conseguenze.

In questa particolare occasione, però, riesce quasi a sentire il coraggio scivolargli dalle dita, sbiancargli il volto, indebolirgli la voce al punto da dover tossire per un paio di secondi – e non ha il coraggio di sollevare lo sguardo verso l’altra parte dello studio, perché sa che lì troverebbe Taehyung, gli occhi enormi e sconvolti, labbra appena socchiuse. La delusione visibile nel modo in cui il suo corpo sosta in mezzo alla stanza, muscoli tesi appena e, Yoongi lo sa, il pomo d’adamo che trema, nel tentativo di trovare le parole.

“Cosa stai dicendo, hyung?” è quello che alla fine Yoongi riesce a sentire, e la voce di Taehyung è così tenue, completamente diversa da quella a cui è abituato, che ha bisogno di mordersi il labbro per impedirsi di avvicinarsi e prendergli una mano tra le proprie. Non hanno bisogno di questo adesso.

“Esattamente quello che hai sentito. Non possiamo andare avanti a fare– non possiamo andare avanti così. È ridicolo.”

“Non possiamo fare cosa? Hyung. Perché non mi guardi?”

Avrebbe dovuto, prima o poi. Quindi Yoongi lo fa, sposta lo sguardo e Taehyung è lì, proprio davanti a sé, bellissimo nonostante le spalle ricurve e i pugni chiusi, nonostante l’abbigliamento casalingo, le gambe tornite avvolte in un paio di pantaloni della tuta e la maglietta enorme che lo fa sembrare ancora più piccolo di quanto in realtà non sia. Non lo è affatto, non più.

Yoongi fa fatica a pensare che una volta, quasi otto anni fa, la stessa persona che adesso gli è di fronte era solo un ragazzino, braccia lunghe che sbattevano dappertutto e occhi vispi, perennemente alla ricerca di qualcuno da poter abbracciare, qualcuno che gli facesse compagnia e allontanasse la paura, come un cucciolo bisognoso di attenzioni, con quel modo di urlare il nome di tutti anche quand’erano nella stessa stanza e le mani che scorrevano su spalle e ginocchia, davano pacche scherzose in zone improbabili – e Yoongi lo ricorda bene, lo sguardo di Taehyung così pieno di stupore e di angoscia, a cercarlo tra la folla durante il loro primo debutto televisivo, e il modo in cui gli si è sistemato accanto, in silenzio, gli occhi umidi ma la bocca piegata in un sorriso fiducioso, troppo piccolo per il mondo così enorme che gli si staglia davanti. Lo ricorda perché quella fitta al petto, nel guardarlo, non è mai passata, solo affievolita nel momento in cui ha intrecciato le sue dita alle proprie, di nascosto dalle telecamere.

L’ha visto crescere, quel bambino dai modi strani, l’ha visto accucciarsi nell’angolo del bagno la notte, i singhiozzi soffocati dalle maniche delle sue felpe, la nostalgia di casa così straziante da fare male; l’ha visto portare un cuscino in più verso i letti di tutti e infilarsi sotto le coperte per abbracciarli, e solo allora dormire angelico, col calore dei loro corpi addosso e la testa poggiata sui loro petti; l’ha visto cambiare colore di capelli ad ogni stagione, la chioma disordinata da domare ogni mattina davanti allo specchio per poi, quando Yoongi la scombinava per puro dispetto, biascicare “ti odio hyung”,  lo spazzolino in bocca, col sorriso più brillante del mondo nonostante il dentifricio – e Yoongi non gli avrebbe creduto mai, ma lo avrebbe lo stesso imboccato durante il pranzo, per impedirgli di rubare più del necessario dal piatto di Seokjin. E perché quel sorriso che gli scopre tutti i denti, mentre mastica il pollo fritto, è come un balsamo che non ha mai saputo di desiderare, e lenisce la fatica di giorni e giorni passati in sala prove.

Adesso Taehyung è un uomo, ed è splendido. Lo spettacolo dei suoi lineamenti delicati e intensi, la linea sottile della mascella, il colore caldo dei suoi occhi che contrasta con quello sguardo affilato, l’eleganza naturale dei suoi movimenti, il modo in cui si sfiora il collo durante le sessioni fotografiche, in cui avvolge le dita sottili attorno al microfono verde – è da mozzare il fiato, e Yoongi non riesce a toglierselo dalla testa. Non ci è mai riuscito, a dire la verità. E ha l’impressione che sarà ancora più difficile cancellare dalla memoria il modo in cui Taehyung lo sta guardando adesso, tutto labbra serrate e muscoli contratti.

“Mi dispiace, Taehyungie. È stupido. Non avremmo dovuto nemmeno iniziare.”

Il resto è solo un sussurro. “Te ne sei pentito?” gli chiede Taehyung, e c’è abbastanza amarezza in quella domanda quanto terrore, ma continua a non togliergli gli occhi di dosso, come se stesse cercando disperatamente un minimo segno di cedimento da parte di Yoongi. E Yoongi è sicuro che Taehyung non debba neanche guardare così a fondo – il rombo insopportabile del proprio cuore, lo sa, riesce a sentirlo.

Yoongi non può mentirgli, non ci riuscirebbe in ogni caso. Qualsiasi sia questa cosa che hanno negli ultimi tempi – perché non ne hanno mai parlato, non gli hanno mai dato un nome e potrebbe avere qualunque significato, e Yoongi non sa quale temere di più – non è mai stata esattamente uno sbaglio.

Solo la prima volta Yoongi si era convinto che lo fosse, quando Tae si era sporto per baciarlo, sul divano a notte fonda, il respiro che sapeva di soju, e Yoongi gli era andato incontro, per istinto, le labbra ancora bagnate di quella birra costosa che avevano tutti bevuto per festeggiare l’uscita del nuovo album. Le loro bocche si erano scontrate senza grazia, i pensieri annegati nell’alcol e nella promessa di un altro fortunato comeback, e Yoongi non saprebbe dire per quanto tempo siano stati con le dita intrecciate nei capelli dell’altro, i petti uniti, denti che graffiano e lingue che sfiorano, perché quando aveva ripreso conoscenza, il mattino dopo, aveva solo visto Taehyung rannicchiato al suo fianco, il sole tra i ciuffi neri, le labbra ancora rosse e umide e bellissime.

“No, non mi sono pentito.”

E Taehyung lo guarda e quasi ricomincia a splendere, la speranza gli raddrizza la schiena, gli fa distendere le mani sottili per afferrargli il polso, forse, ma Yoongi fa un passo indietro, e vede la luce spegnersi ancora negli occhi di Taehyung.

La seconda volta, in effetti, non poteva di certo considerarsi una svista, o il frutto di una coscienza troppo ubriaca per poter comprendere a pieno – no, era stato niente meno che una sete avida, frustrante, la necessità di sfogarsi dopo giorni di pressioni su concerti impossibili da eseguire e coreografie che nessuno avrebbe mai applaudito: si erano cercati negli spogliatoi vuoti dopo un allenamento, il sudore a bagnare le maglie di entrambi e le gambe tremanti, e Taehyung gli aveva messo le mani sulla nuca, l’aveva attirato a sé e l’aveva baciato, di nuovo, nonostante il sale sulle proprie labbra, e Yoongi l’aveva toccato con una smania inusuale, pelle calda sotto le mani, anni di desideri nascosti e soppressi – perché Taehyung è solo un ragazzino, perché non possiamo mettere a rischio i Bangtan, perché non può approfittare di quest’ammirazione cieca, perché è più grande e dovrebbe essere mentore, dovrebbe prendersi cura di lui, non sporcarlo, non metterlo in pericolo, non illuderlo di qualcosa che non potrebbe mai essere – ma in quel momento Taehyung era davanti a lui e lo voleva, quasi quanto Yoongi lo aveva voluto a sua volta. Si erano persi in movimenti per nulla gentili, nello strofinare e aggrapparsi e stringere e spingere, ma Taehyung non aveva mai smesso di sussurrare il suo nome all’orecchio, con una dolcezza che lo aveva distrutto, pezzo dopo pezzo. Non lo meritava.

“E allora perché? Cos’ho sbagliato?”

La voce di Taehyung trema come tremano le dita di Yoongi mentre tenta di passarle tra i capelli, in un gesto che è più un’abitudine nervosa che un vero bisogno. Vedere Taehyung così – il Taehyung che ha fantasticato di chiamare suo, in questi mesi, nelle notti in cui anche dormire sembrava un’utopia – lo spaventa più di ogni altra cosa, perché è una testimonianza costante di quanto sia indispensabile per lui, vedergli quel sorriso grande sulle labbra anche adesso che è un adulto e non ha più la stessa vivacità di prima – eppure il modo in cui lo fa, il modo in cui sorride, non è cambiato affatto in tutti questi anni, e Yoongi odierebbe essere la ragione per il quale debba nasconderla ancora, quella felicità che gli cambia i tratti e lo rende bambino ancora una volta. Come quando Yoongi l’ha visto all’inizio di tutto.

La terza volta era stato Yoongi a cercarlo, perché era uno di quei periodi in cui Taehyung aveva cominciato a non parlare e a piegarsi in silenzio durante le prove, spiegazzato come carta straccia, passi troppo pesanti per una coreografia leggera – e allora l’aveva aiutato a districare tutti i nodi, nella sua camera, e l’aveva fatto con una tenerezza che non sapeva di avere, baciandogli le palpebre e parlando sottovoce, con la paura sciocca di spezzare questa melodia dei loro corpi vicini, le voci che si mischiano, i loro respiri affannati sul collo dell’altro, e per quella sera non aveva desiderato altro che avere Taehyung per sé, in quella maniera, per tutte le notti in cui il desiderio di stringerlo gli toglie anche il sonno, per tutte le notti che Taehyung ha timore a passare da solo in un letto senza calore, senza il suo Yoongi-hyung a lasciargli la parte morbida del cuscino come quando era ragazzino.

E questi pensieri l’hanno terrorizzato.

“È pericoloso. Per me, per te. Per il gruppo. Lo sai questo.”

“Starò attento hyung, lo prometto! Che male c’è? Perché non va bene se stiamo insieme quando non ci sono le telecamere? Perché–” e qui la sente con chiarezza, la voce di Taehyung che si spezza e anche senza guardarlo sa che ha gli occhi umidi, le lacrime che minacciano di scorrergli silenziose sulle guance scolpite, “–perché dev’essere tutto così difficile?”

E Yoongi vorrebbe dirglielo, che non è mai stato così facile, invece, lasciarsi bruciare nel momento in cui ha scoperto di volerlo senza rimedio, con un’intensità imbarazzante e tremenda, volere i suoi occhi su di sé, la sua voce non più infantile a complimentarlo, voler rimanere al suo fianco ancora per un po’, ancora un altro attimo, volere Taehyung – lo stesso Taehyung che ha cresciuto in tutti questi anni, a cui ha badato cucinando jjajangmyeon a mezzanotte dopo i concerti, che ha lasciato riposare al Genius Lab mentre tentava di lavorare alle tracce del suo primo mixtape, per il quale ha comprato maglioni che potessero coccolarlo come non era concesso fare a lui, e che ha ascoltato cantare fino a non avere nient’altro nelle orecchie, solo il miele della sua voce intensa che gli racconta di amori che non ha mai provato.

Non è mai stato così facile lasciarsi amare e capire che è possibile, amare, anche per lui, nonostante il resto.

E gli fa ribollire il sangue, sapere che non possano continuare a farlo. Perché anche Yoongi la sente, la stessa frustrazione di Taehyung, quella che gli rende le guance umide e gli fa conficcare i denti nel labbro, ed è insopportabile, è ingiusta – perché se fossero in un’altra città, se non ballassero, se non cantassero, se la loro vita non fosse un film per il divertimento degli altri, se non avessero mai avuto un sogno così grande e non avessero lavorato come folli per vincere tutte le battaglie, allora forse, forse, forse ci sarebbe una speranza. Ma non è così, e c’è una rabbia che gli monta molesta nel petto, gli fa alzare la voce, lo fa urlare. Per tutte le cose che ha perso, e che continua a perdere.

“Perché hai idea di cosa succederebbe se ci scoprissero, eh? Tanti altri- amici sono stati sbattuti fuori da tutto questo per molto meno, e cosa farebbero se sapessero che io e te- credi che sarebbero così clementi? Credi che PD-nim sarebbe capace di difenderti?”

Sente di stare digrignando i denti, e per un attimo ha paura di non riuscire a trattenersi, di non poter fare altro che vomitare tutte le sue insicurezze esattamente lì, in quello spazio che c’è tra lui e Taehyung, tutte le ansie e le angosce che l’hanno stretto in una morsa soffocante per così tanti anni, che non gli hanno permesso di accoglierlo tra le braccia tutte le volte che avrebbe desiderato. Ma non lo fa, e invece prende un respiro profondo.

“Come fai ad essere così ingenuo in quest’industria? In questo paese, in questo mondo?”

Lo vede, Taehyung, il viso paonazzo, i capelli corvini che gli cadono davanti agli occhi e mal nascondono le lacrime che gli bagnano le ciglia – umiliato per il solo motivo di credere in troppe favole, credere in una visione della realtà che, inevitabilmente, non è quella esatta. Yoongi sente qualcosa pungergli in gola, al pensiero che Taehyung sia ancora pieno di quell’ingenuità che lo distingueva da bambino, che sia ancora capace di sognare e sperare nel mondo perfetto, che non giudica, non fa prigionieri per amore. Ed è quasi irritante, il modo in cui Taehyung abbia deciso di chiudere gli occhi di fronte a tutti i tabù che ancora sono dolorosamente vivi, abbia deciso di ignorarli e illudersi di poter costruire qualcosa oltre la musica, oltre l’impero a cui hanno lavorato con sangue, sudore e lacrime.

Ma sono entrambi adulti ormai, e non dovrebbe esserci più posto per questi racconti romantici, stupidi e irrealizzabili. Eppure, adesso, a guardare Taehyung e la determinazione con cui rifiuta di andare via, con cui tenta di far funzionare quel che hanno con una disperazione che fa male, Yoongi vede solo tanto coraggio –tutto quel coraggio che a lui è mancato.

“Non m’importa del mondo, Yoongi. Non mi è mai–”

Questa volta Yoongi non riesce a farne a meno: è una forza improvvisa, quella che lo sbilancia in avanti, e in un attimo gli è addosso, il pugno a stringergli la maglietta all’altezza del petto con rabbia, perché non lo sta ascoltando, perché sta facendo finta di non capire, perché sta continuando ad aggrapparsi ad ogni briciolo di speranza e Yoongi ha bisogno di lasciarlo andare. Ha bisogno che Taehyung lo lasci andare.

Strattona Taehyung finché i loro visi non sono a un respiro di distanza, lo fa con prepotenza. E poi grida, sperando di poter sovrastare il battito incessante del suo cuore.

“Importa a me, Taehyung-a! Cazzo! In che modo potrei vivere sapendo che ti ho rovinato? Sapendo che ho rovinato la tua carriera, la tua musica? Perché non lo capisci? Anche dopo i Bangtan, puoi fare così tanto, puoi dare così tanto, e invece– se dovessero sapere, non avrai più niente. E sarò stato io ad averti tolto tutto.”

E a Yoongi non interessa ciò che potrebbe succedere a lui, può rinunciare al rap, può rinunciare alle esibizioni che lo lasciano esausto e soddisfatto, può rinunciare alle parole che non risuonano con le migliaia di demo che ha conservato nel pc, può rinunciare a ciò che lo ha salvato senza chiedere nulla in cambio se non tutto il suo essere – ma Taehyung, no, Taehyung ha una voce così potente da scuotere l’animo, e ha bisogno di cantare, ancora e ancora, ha bisogno di essere ascoltato, di essere il centro del mondo solo per un altro po’, perché tutti possano vedere fin dove è arrivato quel ragazzino che una volta aveva paura di salire sul palco, che ringhiava le sue strofe con timore, perché tutti possano vedere che non esita più, che i suoi passi sono sicuri mentre afferra il microfono, e adesso è in grado di brillare, splendere con tutta la sua luce, il suo cuore in mostra per chiunque voglia fermarsi e ammirarlo.

E Yoongi lo farà. Si prenderà cura di lui, un’ultima volta, come ha sempre fatto.

“Pensi che sia semplice per me, lasciarti andare? Ti sto proteggendo e tu sai solo essere– sei così testardo!”

E questa colpa lo distrugge, lo strazia perché non ha mai pensato quanto potesse fare male, se le cose fossero andate in modo sbagliato – no, ci ha pensato, mentirebbe, ci ha pensato e ci pensa sempre, ma non ha avuto il coraggio di respingerli, mandarli via, questi sentimenti così ingombranti che lo tormentano e lo posseggono, al punto che non ha più altri pensieri, ed è solo un dolore sordo in tutto il corpo, come se non fosse mai stato in grado di contenerli tutti, non quando è Taehyung a farli salire in superficie, e ha scavato e scavato finché non si è stancato di tentare e capire perché, proprio a lui, questo amore così fragile e prezioso, nelle sue mani impacciate. Il proprio sguardo irrequieto a cercare quel sorriso grande, senza una spiegazione.

Ma Yoongi, ad un tratto, non ha più paura di svelare segreti che non ha mai confessato: sente le lacrime scorrere libere sugli zigomi, proprio di fronte al volto di Taehyung, la bocca contratta in una smorfia disperata, la necessità di stringerlo forte, all’improvviso trasparente perché Taehyung possa vederla, la sincerità con cui l’ha amato in tutti questi anni. E Taehyung lo fa, lo accoglie tra le braccia senza pretese, lui e tutte le sue debolezze e tutti i suoi dubbi e quel disastro che ne ha fatto di sé stesso e di tutti i suoi desideri.

“Hyung”, dice solamente, un sussurro sulle sue labbra, “perché lo fai di nuovo? Perché non ti lasci essere felice?”

E poi, vicino fino a sfiorarsi le bocche, “perché non può essere facile come questo?”

Nel momento esatto in cui Taehyung si scioglie su di lui, Yoongi si concede questa finzione. Finge che non ci siano fan, nessuna guardia del corpo, nessuna compagnia multimiliardaria. Yoongi si concede di credere che Taehyung lo stia amando, in questo momento, nell’intimità del suo studio. Che i mormorii e i gemiti che il più giovane rivolge al suo collo abbiano un qualche significato. Se lo concede. Yoongi prenderà quanto può, si è vietato questo amore per così tanto tempo.

Se anche accadesse di nuovo, ne varrebbe la pena.

Se anche lo distruggesse, non potrebbe mai pentirsene. Non se è Taehyung.

donnievt: (Default)

BTS [sope], scritta per il cowt11 sotto il prompt "the beginning of a song someone will sing for me".
Rating: safe
Warnings: /



------





“Hyung”, ha detto a Yoongi quella sera, seduti entrambi sul divano a guardare qualche stupido show in tv senza essere veramente interessati, gli occhi fissi sullo schermo, “credo di non avere più niente da dare.”

Yoongi l’ha guardato con una smorfia strana sul viso, i capelli troppo chiari in un disordinato groviglio, il corpo sprofondato sotto un nugolo di coperte colorate nonostante il riscaldamento sia acceso da chissà quanto tempo e la camera abbia una tiepida calura ad avvolgerli.

“Che cazzata è questa, adesso, Hob-a?”

Con tutti gli altri membri già ritirati nelle loro camere – Jimin e Taehyung probabilmente stretti nello stesso letto, Seokjin a giocare a Maple Story fino all’indomani – è sicuramente un orario troppo tardo per poter avere agilmente a che fare con questo tipo di pensieri, soprattutto per Yoongi. Ma Hoseok sa che il più grande è abituato al vuoto che lo attanaglia quando cala la notte e tutto intorno diventa insopportabilmente buio. Gli si infila sottopelle, Hoseok ha paura di non riuscire più a vedere altro se non questa oscurità terrificante, che lo spinge verso sentieri che, alla luce del sole, non prenderebbe mai.

Hoseok non ha nemmeno voltato lo sguardo.

“Ho danzato, ho cantato. Ho fatto rap nonostante non ne sapessi niente all’inizio di tutto questo”, le luci della tv si riflettono sui suoi zigomi affilati, le labbra strette in una linea sottile, insoddisfatta, “cos’altro può dare j-hope?”

“Non j-hope. Sei Jung Hoseok.”

La voce di Yoongi è ferma, quasi autoritaria. Ma anche così, Hoseok fa fatica a credergli.

Ed è esattamente questo il punto: in tutti questi anni di servizi fotografici e abiti cuciti su misura, di maschere da applicare ad ogni concerto per nascondere fatica e delusione, di sguardi da calcolare, tocchi da celare, movimenti a cui fare attenzione perché per ogni passo c’è una telecamera, un cellulare che ti filma e non ti è concesso sbagliare, distrarti, mentre il mondo va così veloce e camminare diventa sempre più faticoso, tenersi in piedi senza traballare è una lotta che si ripete ogni mattina – ecco, in tutti questi anni di cui Hoseok è grato ma anche stanco, in questa matassa di pensieri che si aggrovigliano e non lo abbandonano, dove inizia j-hope e dove finisce Hoseok?

Non sa rispondere.

J-hope è dovunque, dappertutto, lo ritrova nei vestiti che si spinge a comprare, nel modo in cui angola il telefono per prendere un selfie, nella composizione ordinata e allo stesso tempo caotica del suo studio, nell’enfasi che mette nei movimenti durante le coreografie – e nella musica, ed è qualcosa che ha iniziato a non sopportare, questa intrusione. Non nella musica, non nell’unica cosa che gli ha dato vita e speranza e un futuro: in quella vorrebbe esprimersi, esprimere Hoseok, ma com’è dannatamente possibile se j-hope lo plasma e l’avvelena ed è impossibile sentirsi altro?

E sa bene che tutti gli altri, dopo più di sette anni, sanno distinguere tra Hoseok e j-hope – perché j-hope è rumoroso a livelli estremi e incapace di sedere composto durante le interviste, è instancabile nonostante i mille impegni della loro quotidianità, è quello che li accoglie con un buffetto la mattina all’inizio della loro programmazione nella speranza di distendere i nervi dopo notti insonni, perché j-hope è fedele al suo nome e rifiuta di somigliare ad altro, perché j-hope ha le labbra distese in un sorriso impossibile da ignorare.

Ma Hoseok, no, Hoseok ha gli occhi affilati in sala prove, rimprovera e corregge per ore e ore finché il sudore non si accumula sulle ciglia e i muscoli non iniziano a fare male, e dice ancora, un’altra volta, anche quando tutti sono stanchi e tesi e Jin abbandona la sala perché non può stare dietro ai suoi passi insaziabili, bramosi della perfezione che Hoseok non riuscirà ad avere, non con quella frustrazione che gli tende i lineamenti e lo rende insofferente anche allo sfinimento di tutti gli altri.

Ma Hoseok ha anche una voce calma e intensa, quando sono tutti riuniti attorno ad un tavolo, la testa tra le mani e le lacrime che minacciano di rigare le loro guance, e dice che ce la faranno così come ce l’hanno fatta finora, e le sue mani sono forti e calde appena si posano sui loro corpi, per accarezzare la nuca di Namjoon, la coscia di Jimin, per spingerli in avanti senza rimorsi, le sue braccia che accolgono le loro spalle in silenzio, come sempre.

E per questo sa che gli altri ammirano j-hope, ma amano Hoseok, incondizionatamente. Su questo non ha dubbi.

Eppure è Hoseok a sentirsi stretto, troppo stretto nel guscio che j-hope ha costruito per lui, e sono due identità che si mischiano con una facilità così disarmante che Hoseok perde spesso il filo di quello che è, quello che vorrebbe essere.

Ed è in momenti come questo, in cui Hoseok non riesce a distinguere tra sé e j-hope, che Yoongi sa cosa fare. Perché, inevitabilmente, Yoongi lo osserva da anni, lo ha mappato con le mani, con la lingua, con lo sguardo, lo ha fatto suo e ha lasciato che anche Hoseok lo possedesse; condividono lenzuola, pensieri e idee, e spesso, troppo spesso, anche paure troppo grandi per loro. Yoongi riconosce che le macchinazioni della mente di Jung Hoseok vanno decisamente oltre il sorriso brillante che mostra ogni giorno, sa che a volte quei meccanismi si inceppano e allora è compito suo, non per dovere ma per piacere, oliarli affinché tornino a funzionare senza intoppi.

Hoseok non sa cosa dire, le parole gli muoiono in gola e quindi semplicemente annaspa, l’oscurità della stanza troppo pesante sulle sue spalle – non vuole veramente parlarne, anche se la necessità di definire questa linea sottile tra i suoi due sé è sempre più impellente, e lo ha spinto ad iniziare il discorso. La verità è che non sa cosa vuole, non sa se discuterne potrebbe portarlo ad una notte di sogni tranquilli o ad un completo breakdown, così come non sa se vivere come j-hope o come Hoseok. È un groviglio insopportabile e forse – forse vuole semplicemente che sia Yoongi a capirlo, perché in tutti questi anni, Hoseok non c’è riuscito.

Alla fine guarda Yoongi sospirare, accanto a lui sul divano, e poi togliersi tutte le coperte da dosso e alzarsi lentamente, dirigendosi verso le camere. Per un attimo ha quasi paura che il più grande stia semplicemente andando via, senza dire una parola, ma poi lo vede tendergli la mano, ed è un’immagine così familiare, Yoongi con quella felpa troppo grande per il suo corpo minuto, gli occhi assonnati ma le labbra distese teneramente, i piedi scalzi sulle mattonelle fredde del pavimento.

“Che c’è? Non vieni a letto?” ed è così chiara che quasi brilla, la sua voce.

Hoseok allora sorride. Perché, come sempre, non ha avuto bisogno di raccontarsi con Yoongi.

Anche lui si scosta dal divano per potere afferrare la mano che il più grande gli sta porgendo, e si lascia guidare per il corridoio fino alla stanza di Yoongi – che è assurdamente in ordine perché passa più tempo allo studio che in qualsiasi altro posto –, lascia che sia Yoongi a chiudere piano la porta, condurlo verso il letto e distenderlo, prima di sistemarsi accanto a lui e tirare la pesante trapunta quasi sopra la testa di entrambi.

C’è uno strano conforto nell’accettare le carezze di Yoongi, nell’avere il suo braccio lungo la vita, una mano posata leggera su un fianco scoperto, a sfiorargli la pelle, mentre l’altra è affondata tra i capelli di Hoseok, sentire le sue dita che giocano distrattamente coi ciuffi castani, le unghie curate che ogni tanto grattano sulla rasatura come si fa con i mici. Hoseok pensa sia perché, solitamente, è Yoongi ad aver bisogno di tornare coi piedi per terra – è Yoongi a nascondersi tra scartoffie e demo per giorni e giorni finché non riesce più a sentire le ossa sottopelle e la propria stessa voce tra i mille pensieri, e allora brama le cure di Hoseok come una medicina, lunghi pianti fatti alla luce della luna finché quella tristezza, quel vuoto che inevitabilmente continua a tormentarlo non si affievolisce un po’, ed è di nuovo in grado di respirare.

Stavolta, invece, lascia che sia Yoongi a prendersi cura di lui. A rammendare tutti i suoi pezzi così come Hoseok ha molte volte rammendato i suoi, ed è ormai quello che fanno da tanti, troppi anni: cercarsi per poter essere riparati, perché se anche i cocci non combaciano più e minacciano di crollare di nuovo, non c’è nessuna sensazione che possa mai essere paragonata all’abbraccio che si sono scambiati, per tanto tempo, per poter rimanere intatti.

“Smettila di pensare, Hoseok-a”, il respiro di Yoongi è caldo sulla punta del suo orecchio, il tono poco più di un sussurro, “sei in grado di fare cose eccezionali. E poi che importanza ha, essere j-hope o essere Hoseok? Sei stato entrambi, ha sempre funzionato così. E guarda dove siamo arrivati. Cos’hai combinato.”

“Lo so hyung, è solo che–”

“È solo che sei uno stronzo, Hoseok-a, e credi di dover dividere a metà il tuo successo. Essere equo nei meriti, come se non ti spettassero. Ma credo che se j-hope non fosse esistito, Hoseok non sarebbe qua. Se ne sarebbe andato quella volta, prima del debutto, fregandosene dei singhiozzi di Jungkook. Ma j-hope ci ha creduto, ha sperato, ed è rimasto. E non potrei essergli più grato–”, e qui la sente, la voce di Yoongi che s’incrina appena, gli occhi che cercano i suoi nonostante il buio, “–o non avrei mai conosciuto Hoseok, altrimenti. E non avrei avuto il privilegio di dormire accanto a te, le notti in cui sei in questo stato.”

Hoseok a volte la invidia, la sicurezza con cui Yoongi parla, la sua capacità di centrare il punto senza lunghi discorsi. È la stessa cosa che fa con le sue canzoni: pochi caratteri che arrivano come stilettate al petto, e sono esattamente quel che pensavi, quel che stavi cercando. Quel che ti serviva. È un talento naturale, ma questa volta nelle sue parole c’è una dolcezza che è riservata solo ad Hoseok, una intimità che si è costruita dopo anni di baci rubati e lacrime asciugate con polpastrelli bagnati. E Hoseok non si è mai sentito più fortunato, nell’avere nella sua vita l’unica persona che riesce a cantarlo con le note giuste, anche quando lui stesso non riesce a suonarle. Accade una sola volta, questa chance, e forse Yoongi ha ragione – se non fosse stato per j-hope, non l’avrebbe mai potuto avere così vicino, il battito del suo cuore che gli martella nelle orecchie.

Prima però che possa fare qualcosa – ringraziarlo, no, dirgli che è straordinario, che non c’è nessun altro con cui vorrebbe condividere l’altra metà della sua esistenza, tra successi e perdite, tra timori e mani intrecciate – Yoongi lo guarda come se avesse ancora qualcosa da dire, come se fosse importante, e stesse aspettando esattamente questo momento da chissà quanto.

“E non avrei mai potuto farti ascoltare questa.”

Hoseok capisce immediatamente a cosa si stia riferendo nel momento in cui lo vede inumidirsi le labbra, nello stesso modo in cui fa ai concerti prima di sputare sillabe e sillabe nel minor numero possibile di secondi – e adesso hanno senso, tutte le notti che ha passato al Genius Lab ultimamente, i pranzi che Hoseok gli ha lasciato davanti la porta prima di tornare a perfezionare la coreografia: Yoongi ha scritto qualcosa.

È solo quando il più grande comincia a mormorare una melodia, suoni grezzi che arrivano dalla gola ma sono ugualmente così intonati che quasi può scriverli in chiave su uno spartito, che Hoseok lo nota, il sorriso che gli si dipinge sulle labbra pallide – non è vistoso ma timido, familiare, gli scopre appena i piccoli denti e Hoseok pensa che anche quello è Yoongi, guance paffute e sguardo insonnolito, così diverso dalla figura che si esprime feroce sul palco: è un onore solo suo, poterlo vedere così fragile, questa felicità sottile come vetro che gli trasforma i lineamenti e lo rende ancora più bello.

E poi arrivano le parole, e Hoseok trattiene il fiato – sono sussurri di conforto, quiete, su come tempo e spazio guariscano ferite che sembrano troppo profonde per poter essere bendate, su come perdersi sia necessario per ritrovarsi, o non ritrovarsi affatto, amare, cambiare, sperare, fa male, ma fa meno male se si è in due, se posso guardarti dormire dopo aver sanguinato in silenzio – e la voce di Yoongi è roca, graffia per natura, ma questa notte scivola come miele su tutto il corpo di Hoseok, lo mantiene vivo, lo sente nelle ossa, è dolce e straziante, a volte sembra tremare, rompersi e ricomporsi, e Hoseok vorrebbe avere la forza di interromperlo e baciarlo, mettere le mani sulla sua nuca e spingerselo contro, stringerlo disperatamente, mordergli le labbra finché non sono entrambi esausti ed ansimanti sul materasso.

Ed è vero: le parole di Agust D sono sporche, sputate sul cemento, oscene e tagliano con precisione dove la pelle è più sottile, sono zanne scoperte pronte a mordere, unghie che raschiano e marchiano, lasciano segni rossi su labbra lattee, un macabro teatro di violenza e ostentazione e dolore.

Invece, le parole di Suga sono ambiziose, una superbia letale espressa con toni misurati, ritmi serrati, inebriano come ambrosia dorata, e sono piene di una sicurezza disinvolta, una fiducia in sé, negli altri, nel mondo, nonostante tutto il resto – si completano con altre sei voci, ed è la loro opportunità per essere ascoltate, dopo anni passati su carta straccia.

Ma le parole di Yoongi, no, quelle arrivano strozzate da un corpo martoriato, sono deboli e stanche e a volte hanno un’ineluttabilità devastante, come se fosse l’ultima volta che vengono pronunciate. Ma non è mai l’ultima – perché Yoongi ci vive, nella sua musica, è lei a costruirlo e levigarlo come onde che si schiantano, e lui si lascia trasportare, nessuna resistenza, e forse è per questo che è il genio che tutti hanno imparato a conoscere: perché li accetta, accetta Agust D e la sua brutalità, Suga e la sua brama, accetta Yoongi.

E se Yoongi è capace di essere tutti e tre, di mischiare crudezza e impazienza e sofferenza con questa leggerezza squisita, allora anche lui sarà capace di essere j-hope e Hoseok insieme.

E per questa notte ha deciso di essere Hoseok, in questo letto, stretto a Yoongi che ha deciso di essere Yoongi e cantargli della loro tristezza, perché la speranza ce l’hanno già, l’uno nelle braccia dell’altro, nel momento in cui Hoseok decide di aggiungere un paio di altri mormorii alla melodia di Yoongi, e si ritrovano a intonarla, insieme, inciampando ogni tanto negli sguardi che si scambiano, nelle labbra che si sfiorano.

“È per te, Hoseok-a. Da parte mia.”

È l’inizio di una canzone che qualcuno, un giorno, canterà per me. Su un palco, microfono in mano, senza pudore, gridando a squarciagola quanto abbiamo sopportato e quanto ci siamo cercati. Nessun frammento da ricomporre, solo noi, completi, le nostre crepe colmate con l’oro che ci siamo donati.

donnievt: (Default)
Originale [galaxy burgerz], scritta per il cowt11 sotto il prompt "transizione"
Rating: safe
Warnings: /




------





C’è stato un periodo, nella sua vita, in cui la somiglianza con sua sorella era fin troppo lampante. Le stesse piccole efelidi blu sul naso azzurro, le zanne che crescono alla stessa velocità – quelle di Djadi già scheggiate per tutte le volte che le ha affondate sui noccioli della frutta, nella foga della fame –, i capelli lunghi fino alle spalle e acconciati in miliardi di codine diverse. A volte anche la nonna aveva difficoltà a distinguerli, finché non osservava per bene i sorrisi e allora diventava chiaro chi fosse Djadi e chi fosse Dval – perché sua sorella l’ha sempre avuto più brillante, il sorriso, pronto a spuntare alla minima occasione, dipingersi sulla sua piccola bocca, per rallegrare, per confortare, semplicemente per la felicità intrinseca che c’è nello stirare le labbra e apprezzare il mondo.

È sempre stata così, fin da quando erano piccoli.

Irrequieta. Testarda. Onde che s’infrangono prepotenti sul granito, levigandolo. Folate di vento che fanno fremere e tremare ogni cosa. Djadi ha la stessa forza, la stessa tenacia affascinante del fuoco che dipinge di rosso il cielo della loro città natale, che divampa accanto alle stelle e plasma l’intero pianeta come creta. Lo stesso fuoco che veneri, che guardi con il rispetto che solo qualcosa di così splendente e letale può portare, sapendo quanto sei fortunato nel poterlo ammirare ed essere ancora vivoperché non potrebbe mai farti del male, arde così intensamente da colmarti di un calore familiare e insopportabile, e ti fidi, ti trovi a tendere la mano verso l’orizzonte in fiamme.

È così che la guarda Dval, che invece di tutto questo splendore non ha mai posseduto nulla.

Dval è sempre stato silenzioso. Seduto con le ginocchia al petto a guardare sua sorella, un sorriso flebile sul viso unicamente perché lei è là, e la sua presenza lo rassicura in una maniera che nemmeno lui riesce a spiegarsi – come se il disagio che prova si assottigliasse almeno un po’ quando lei è nei paraggi e lui ha la possibilità di poggiare lo sguardo sulla sua figura snella e raggiante. Un conforto immediato che ricerca come l’aria negli ultimi tempi, spaventato di soffocare.

Non che Dval sia triste – è veramente troppo giovane per potersi lamentare di alcunché, e per di più oggi le mamme gli hanno chiesto di aiutarle a mettere a posto l’intelligenza del piano delle luci in cucina, che ultimamente si accendono e spengono senza criterio e sono costate a papà l’ultima infornata di biscotti, salatissimi perché il sale e lo zucchero sono vicini sullo scaffale e sapete che non vedo affatto al buio. E Dval è bravo in questo, macchinare con cavi e circuiti è la sua specialità, sa di poterlo fare in un batter d’occhio per poi crogiolarsi nei complimenti su quanto sia sveglio e attento e diligente. No, oggi è un bel giorno.

Ma sono mesi, forse anni, che questo peso nel petto non vuole svanire nonostante abbia tentato in tutti i modi di allontanarlo – e i tentativi includono l’aver costruito un piccolo Somphoth, perfettamente funzionante, compreso di sei occhi meccanici e lunghe ali ai lati della testa, mettendo insieme i pezzi che ha trovato alla discarica degli automi; o l’essersi abbuffato di hamburger di Cuqox finché non ha sentito la bocca andare a fuoco, la piccantezza della carne troppo esuberante per le sue papille gustative.

Quella di adesso è solo la sua ennesima occasione per tentare di stare bene, perché ha sempre funzionato e magari anche questa volta lo farà: trascorrere un pomeriggio con Djadi sperando che la sua allegria possa distrarlo, correndo lungo il fiume rosso e aspettando che il tramonto infiammi il cielo, distesi sulla riva, i nasi rivolti all’insù e le mani intrecciate. Come quando erano solo dei cuccioli.

Eppure, nonostante tutte le smorfie scherzose che si susseguono sul viso di Djadi, nonostante gli insetti che tenta di scacciare con movimenti goffi ed esasperati, Dval non riesce a respirare. Neanche con l’allegria di Djadi il mondo sembra cambiare colore: è tutto di un asfissiante grigio, paesaggi che si ripetono insistentemente e Dval non riesce a riconoscere nulla, non riesce nemmeno a riconoscere sé stesso in mezzo a questa monotonia – ha la sensazione come se qualcosa gli stesse sfuggendo dalle mani, come se stesse scappando via dalle sue dita in maniera così evidente ma lui non sa cosa sia, non sa cosa fare, non sa cosa essere, non sa come stringerla al cuore per non farla scappare, annaspa nel tentativo, ma è una lotta così insulsa e Dval si sente semplicemente scivolare via.

E Djadi è sempre stata la sua altra metà, lo specchio che riflette le sue paure e le sue gioie più grandi, è stata il suo coraggio quando lo ha aiutato a stringere le fasce al petto, quando ha provato insieme a lui milioni di maglie finché Dval non ha trovato quella che odiasse di meno vedersi addosso. È la sua casa. Lo è stata da sempre. Ma questa volta quel balsamo profumato che è la sua presenza non funziona, la sua risata non lenisce, il suo sguardo attento non ammorbidisce quel dolore che continua a martellargli in tutto il corpo, intorpidito e vuoto. Dval sente il panico montargli nelle ossa.

“Djadi”, sputa fuori, il respiro affrettato, e sua sorella si volta a guardarlo in silenzio, “tagliami i capelli.”

Djadi non dice nulla, lo osserva e basta, ma i suoi occhi sono grandi e dolci e parlano con parole che non potrebbero mai essere dette. Sembra averlo capito senza che Dval abbia avuto la necessità di raccontarsi, ed è un bene, perché non saprebbe veramente come spiegarlo, questo disagio che gli si nasconde sottopelle e lo paralizza quando si trova davanti al proprio riflesso nei vetri di casa.

“Li voglio corti. Da un po’. Non sopporto le trecce, non voglio continuare a farli acconciare ogni mattina. È uno spreco di tempo, e non mi piacciono, non stanno bene come su di te, sono diverse su di te, sono diverso–” e finalmente Djadi lo interrompe, quel nugolo di scuse a cui nessuno dei due crede veramente.

“Okay”, gli dice, e Dval vede il sorriso più bello dell’universo fiorirle sulle labbra. È un attimo, e Djadi ha già le mani nella sua chioma, dita esperte che sciolgono piano le trecce, un nodo alla volta, e Dval sente di non poter provare gratitudine più grande di questa.

Si perdono il tramonto, alla fine, troppo impegnati a far sì che il piccolo coltellino che Djadi porta sempre con sé non gli tagli accidentalmente un orecchio, e quando lei sbuffa, mettendosi le mani sui fianchi, c’è già un piccolo mucchio di capelli rosa al suo fianco, che minacciano di sparpagliarsi sul prato ad ogni folata di vento.

“Ecco”, la voce di Djadi ha una nota soddisfatta mentre si allontana per ammirarlo, “ho finito. Perché non ti guardi?”

Dval vorrebbe dirle che ha evitato la sua immagine riflessa per chissà quanto tempo, e che il terrore di guardarsi adesso e odiare quel che vede lo attanaglia e gli fa mancare il fiato, non per paura di un taglio sciatto, ma per paura di non riconoscersi nemmeno così, nemmeno dopo tutto questo lavoro, tutto questo coraggio. Ma non lo fa. Invece, si sporge sulla riva del fiume, per tentare di scorgere la propria figura nel rosso delle acque.

Quasi perde l’equilibrio.

La sua zazzera rosa adesso ha ciocche che si innalzano disordinate da parti completamente diverse, una frangia irregolare che gli cade delicatamente sulle sopracciglia, ed è gonfia, sembra gli sia esploso un piccolo circuito tra i capelli, ma Dval non riesce a fare altro che sorridere, così esageratamente che le guance gli fanno male, gli occhi gli si riempiono di lacrime. Djadi ha addirittura raschiato il coltellino alla base della testa, per mimare una sorta di rasatura, e nonostante sia assolutamente asimmetrica, Dval la adora. Anche i suoi zigomi sembrano più pieni, senza ciuffi di capelli che li accarezzano lascivi, e Dval allunga il collo per vederlo nudo, le spalle sottili senza nessuna coda o treccia a sostare.

Gli si affianca Djadi, in quel riflesso cremisi, e adesso, per la prima volta, sembrano differenti. Djadi sembra Djadi, con le lentiggini che si accendono di felicità nel vedersi vicini, il naso che si arriccia.

E Dval sembra Dval.

Finalmente.

“Djadi”, dice allora, di nuovo, la voce così flebile che potrebbe perdersi nel rumore del suo cuore che batte e urla, “non mi piace il mio nome”.

È un nome che non rispecchia la figura che sta continuando ad osservare, e manca poco, un solo passo e riuscirà di nuovo a respirare, lo sente e non vede l’ora di essere completo, di essere il ragazzo con la chioma sbarazzina che è appena nato e non morirà mai.

“Come vorresti che ti chiamassi?” Djadi non ha tentennato un solo minuto, e ha invece allungato la mano per stringere la sua, dita sottili che si intrecciano con forza.

Dval ci ha pensato tanto, ha provato ogni combinazione possibile, ha ascoltato il suono della sua lingua pronunciare ogni lettera milioni di volte, il modo in cui gli facevano increspare le labbra, i movimenti della sua bocca – ma non ha mai saputo decidere, non ha mai avuto il coraggio. In un modo o nell’altro, nessuno sembrava adattarsi all’immagine che si era abituato a vedere allo specchio, come se fosse fuori posto e non combaciasse nessun angolo, come se fosse solo un altro pezzo grigio che si aggiunge ad un quadro già incompleto di per sé. Ma adesso, con la spalla di sua sorella che sfiora la propria e il vento che gli accarezza la nuca scoperta, non ha nessun dubbio.

“Dval.”

E questa volta gli sembra il posto giusto. E’ di un bel colore. Lo fa stare bene.

Djadi si passa la lingua sulle labbra, prima di pronunciarlo. Dval, dice, e poi ancora, Dval, Dval, Dval, Dval, lo sussurra mille volte fino quasi ad urlarlo, e ogni volta sembra sempre più corretto, glielo cuce addosso con la stessa tenerezza che scorge nei suoi occhi, nelle braccia che lo avvolgono e lo stringono a lei, e Dval si sente finalmente a casa.

“Ti dona, sai? Mio Dval.”

È già sera, il fuoco del tramonto ha lasciato posto ad una notte scarlatta, cupa e tetra, ma la felicità che li unisce in quell’abbraccio silenzioso brilla come nessun’altra stella nell’universo, e Dval non sa se i singhiozzi sono per le lacrime che gli rigano le guance o per le risate che gli fremono nel petto, ma sa che quello è esattamente dove vorrebbe stare, per il resto della sua vita. Accanto a Djadi, che non ha mai smesso di sussurrare il suo nome, quello nuovo, e non ha mai smesso di dirgli che è stupendo, che è l’unica cosa di cui ha bisogno. Che lo ama.

E a Dval basta questo.

Questo piccolo pezzetto di universo che lo accoglie, in questo nuovo aspetto, in questa nuova parola che lo definisce meglio di quanto le altre abbiano mai fatto in tutta la sua vita.

Dval Dval Dval Dval Dval.

donnievt: (Default)

BTS [namgi], scritta per il cowt11 sotto il prompt "monologo di achille lauro a sanremo 2021".
Rating: nsfw
Warnings: /



-------






It’s only bound to happen. Like it had so many times before.

Yoongi knows that the very moment he sees Namjoon storming in his room, the one he calls studio even though it’s just a cramped closet, door almost slamming to the wall and hands clasping the doorknob so tight he sees his knuckles turn white. And then, just as Yoongi swings his chair to face him, Namjoon instantly regrets the force he used to barge in and tries to make it up by gently closing the door, still too self-conscious of the stiffness of his limbs.

“What happened, Namjoon-a?”

These months there’s always something bad peeking at the corner: even one year after debut they’re working twice, thrice as much as when they were trainees, all for the scene to make fun of them and throw shit at their style that’s not really idol nor hip-hop – and so Namjoon has to sit through hours long meetings about how they have to sing better, dance better, do better, about how they need to step up their game or they’re never gonna make it, the sacrifices they’ve done until now completely useless, all those scars and gritted teeth thrown away in the trash. And sure, that’s his duty, he’s the leader after all, but Yoongi can’t bear to see him folded in two like origami, head sunk in his shoulders, shielding all of them from the thought of disbanding because Bangtan’s not good enough. They’re still just kids, despite them trying to act like men, and this is so unfair, this heavy weight on his nape only for him to wear.

Yoongi just wants him to share whatever is holding him down so much. He’s not alone. There’s seven of them.

But alas, Yoongi knows Namjoon likes to be the one to carry this burden, pester his sleepless mind with harmful thoughts until he’s too tired, too angry to even exist. Namjoon has always been eager and nervous, wanting to prove something, full of ideas. A lot of ideas. It was one of the reasons he and Yoongi got along so well, Namjoon was always whacking into everything but Yoongi would sit back and watch the flailing and listen. He trusts Yoongi.

And so, he comes to him.

“I- I just need”, Namjoon’s lips stutter and all of a sudden he seems younger than he really is, “I need to stop thinking, hyung. Please.”

That Yoongi can do. That’s how he can be of help. He has already heard that phrase, when Namjoon starts overthinking, trapped in his head a little too long, and has used it himself many times before, if he can’t feel the ground beneath his feet nor the bones under his skin anymore. And that’s when they seek each other out for an easy orgasm. Or maybe for something more, he really doesn’t know.

He sighs, stands up to get closer to Namjoon: he’s absurdly tall, his figure lanky, bleached hair with that stupid haircut and faint dimples at each side of his face, sign that he’s half smirking at how close they are, at the scent of Yoongi suddenly filling his nostrils – and it’s just the cheap detergent they all use these days, but it’s mixed with something he can’t quite put, something extremely familiar.

Yoongi barely brushes his lips to Namjoon’s, aggressively grabbing his arm to ground them both, because they’ve done this a lot before but somehow it still makes them lose themselves in anticipation. Yoongi can hear Namjoon’s heart beat so fast he almost loses the thread of what he wants to say – that this is not a solution they can come back to every single time, that this doesn’t help nobody save for their bodies and their overwhelming hunger for pleasure, but what if the other members find out, what then – except, he finds he’s tangled in this mess too, doesn’t know where he begins and where he ends amidst all the knots. He’s already hard at the thought of making Namjoon forget what’s troubling him until he screams his name between groans.

“Let’s unravel then.”

It’s the spark in Namjoon’s eyes that gives him in, makes their mouths clash together, a heavy, languid kiss, Namjoon’s lips insistent against Yoongi’s, aching and ecstatic and bold, only now their breaths are quicker, and the air they’re swapping is perfumed with sweat and something else salty and tart and it’s fucking hot.

It’s some sort of release, all the frustration about their work and months of pent up sickness, a powerful burnout neither of them has had the courage to bring up, now washing over them like water, leaving their bodies tense but not from exhaustion, just from excitement. Only it doesn’t really feel like release because it’s all replaced with the heaviness that always settles between them, that guilt of needing each other’s skin to function properly, this need for closeness, for their bodies to join and meld together growing more urgent every day it almost consumes him – needing this hard and fast, even though they shouldn’t, even though this is more dangerous than any wrong choreography, any off-key high note. But that’s exactly what makes it so fucking exciting, and so fucking painful at the same time.

It's when Namjoon tries backing up to breathe, Yoongi pulls him down again, not finished with their kiss. He sinks his teeth into Namjoon’s bottom lip, eliciting a low growl from the youngest, one that makes his cock twitch in his jogger pants, and it’s almost ridiculous how much he wants to make Namjoon feel good, like it’s his ultimate goal in life.

“How do you want this?” he huffs all at once, hand gripping tighter at the short hair at the base of Namjoon’s neck, mouth parting just to sink again at the sharp angle of his jawline, biting hard but careful not to leave marks for the next day, because they cannot risk it, no matter how strong the primal need to claim, to possess.

Namjoon loves every second of it, it’s clear from the way he locks both his arms behind Yoongi’s waist, without kindness, bringing their bodies flush and grinding slowly.

“I don’t know, hyung, just- let’s be quick” and strains his neck to show more, a feeling of sharp pain that’s soothed almost instantly by Yoongi’s tongue, but for a moment he just seems to get back to his conscious self and says, voice suddenly firm and commanding, “I want you on your knees, sucking on my dick.”

Yoongi feels his brain tilting hazy as he nods, a shudder running through his spine. Says “alright, let me put something on first.”

They part and Namjoon sits comfortably on the small couch, legs spread open, watching as Yoongi is searching for something on his computer screen – a playlist, always a playlist, Yoongi has a playlist for everything: a couple of clicks and then loud enough music starts to flood the room. Namjoon can’t quite recognize it but the rhythm is steady, bass pumping, electric guitar strumming now and then. He’s sure it’s something like The Killers or shit like that because Yoongi’s obsessed with old rock n roll, and he honestly doesn’t mind. He likes the feeling of those raw vocals, and he hopes it’s noisy enough to muffle the sound of their voices, all the gagging and pleas.

Yoongi settles between his legs, bending down to leave a sloppy, wet kiss on Namjoon’s lips before falling on his knees, hands hovering over his belt. Namjoon knows that kind of kiss. It’s the kind of kiss that a lover gives when they want you to think about fucking their mouth: it’s hard, open mouthed and slick, and his body kicks right into gear. Yoongi unbuttons his trousers and pulls them down a little, just the right amount for the shape of Namjoon’s hard cock to reveal itself through the fabric of his underwear.

Namjoon has his head down, to watch as Yoongi moves between his legs, rubbing his mouth right where the bulge of his cock is pushing against the cloth. The touch is feather-like, and Yoongi’s surely having so much fun, making him squirm and wait, Namjoon can see it from the mischievous glint in his eyes. But then he pulls down his underwear too, all at once, and Namjoon feels Yoongi’s hands travel all the way along his shaft, fingers tracing lightly, and he would like nothing more than to be encased in Yoongi’s delicious mouth, but for now his hand is good.

After fumbled hand jobs in airport bathrooms, seeing how quickly they can get each other off in between dance practices over the past year, Yoongi knows all the right buttons to push, all the ways to draw out the grittiest noises that makes his head spin. He knows how much Namjoon likes the extra attention on the underside of the head, digging his thumb into the slit while bringing up a second hand to trace faint touches along the pulsing veins.

Fingertips begin to draw irregular ellipses on his sensitive skin, his breathing quickening the higher the circles go.

“You’re so hard already.”

Namjoon smiles. There’s no point in hiding how aroused Yoongi gets him, just the sight of him playing around with his cock, head now impossibly red only thanks to him. He really likes the way it looks to have someone on their knees in front of him, especially Yoongi, the most prideful between all seven of them, now with flushed cheeks and not an ounce of shame in his eyes.

Yoongi takes a single finger – the index – and places it flat right under the crown of his cock and begins to drag it ever so infuriatingly up and down his aching length. He keeps this tortuous tracing up, his hand coated in a sticky mess despite him only using a single finger to touch him, Namjoon’s cock wet and drooling precum throughout all of it. Namjoon’s legs twitch pitifully: all this teasing is positively dizzying, but he wants more.

That’s why he lays his hand on Yoongi’s head, grabbing chocolate brown locks without force, just to silently tell him his intentions. Yoongi reacts instantly, so perfectly attuned to Namjoon: makes a point of keeping eye contact with him as he sticks his tongue out and lowers his head to Namjoon’s crotch, bracing his hands on Namjoon’s still clothed inner thighs.

In a hot second he’s spitting on his cock and sucking down half his length in one go, moaning around his stuffed mouth, disgruntled at the feeling of Namjoon’s chest arching so suddenly. He has a palm creeping on his stomach, pearlescent white over the tan of Namjoon’s skin, pinning him down. With his other hand, he steadily grips the base of Namjoon’s cock, sinking down another inch, laving his tongue over every bit of skin.

“Fuck,” Namjoon shudders, tipping his head back on his shoulders and trying to get a better grip on Yoongi’s hair, instantly returning to watch down his legs, this show too precious to lose even a single moment of it, “you feel so good around me, hyung.”

There’s no lack of honorifics between them, even in situations like these, because it makes it easier to pretend there’s nothing between them, this is nothing romantic and they’re just satisfying this red hot urge that burns so vibrantly in their bodies, like most people their age do. Usually, Namjoon would be able to keep himself together a little more, but at the moment he is a rubber band stretched past its limits, ready to snap.

Yoongi pops off, licking up his spit like the drips of an ice-cream, and smirks. He’s beautiful like this, heart-shaped lips swollen and glistening with saliva, the one who controls the pace and the contact, leaving his body thrumming in want. Yoongi’s needy and dirty, sick and filthy like the beat they’re listening to, raw like rock n roll, and Namjoon’s so fond of him.

As Yoongi goes back to where he was, Namjoon keens and pants, struggling not to move, but keeps his hand tangled in those sweet curls as Yoongi swallows around him. The noises coming from the oldest now make his head spin: he’s taking him entirely, cock deep in his mouth and staring at Namjoon like he wants to say a million things at once. He can feel every touch, every time Yoongi moves. Finally, he pushes the hand he had rested on Yoongi’s head a bit towards himself, and Yoongi slides down easy, whimpering small with pretty lips wrapped around him. Namjoon’s fingers find their way into his hair in a manner that is entirely too tender for the way Yoongi is working on relaxing his throat around his cock so he can take him even deeper.

Namjoon eyes fall closed as Yoongi sucks him, overwhelmed, cheeks hollowing out now and then, pulling himself up only to sink back down again. Yoongi, musical genius, plays Namjoon better than any instrument, and Namjoon still wonders how he’s capable of doing that, of making him come apart so seamlessly. He brushes Yoongi’s tangled bangs out of his face, and Yoongi preens, sending low vibrations straight to Namjoon’s dick.

There’s no time for a praise but Namjoon whines anyway. “Too good”, a moan escaping from his lips. When Namjoon moans a little louder, Yoongi pulls off, taking him back in his hand, eyes fluttering up. He holds the eye contact, so much desire swirling between them, but the tighter grip in his hair makes his mouth part wider, once again, suddenly groaning as he wraps his mouth back around his length, hot and wet and dripping. Feels Namjoon pulse in his mouth, legs twitching open slightly more, and watches as the fingers of his free hand dig into the fabric of the couch, his other hand pushing him down on his shaft mercilessly.

Yoongi lets his jaw go slack, and blinks up at Namjoon, urging him to go for it, to use his mouth to make himself come. It’s a strangely rewarding feeling – being held in place as Namjoon’s shallow thrusts gain momentum, his dick sliding down, his eyes hooded and glazed over. Having been able to reduce the youngest to the point where he’s only focused on taking what he needs.

“That’s it,” Namjoon groans, “I’m almost there”. Breathy and raspy and deep.

So Yoongi swallows around Namjoon’s cock to make the fit tighter for him, sounds embarrassingly obscene even through the veil of haze over his mind. Namjoon feels himself grazing the edge, slipping dangerously close, his toes curling, so close to a rough release that he can nearly taste it on the roof of his mouth. Then the pleasure ceases just as he’s about to tip over, Yoongi parting with a beginning of a smug, menacing sneer painted on his lips. Just to say, “come on me then”.

And Namjoon is done for.

The pressure builds too quickly again and he rocks his hips up, head thrown back, feeling the orgasm flood his skin, overwhelming, like lighting as he pulses out all at once, warmth washing everywhere as the feeling overflows, aching deep in his stomach and pulsing cock. His mind is hazy and he’s trembling all over but the first thing he does is searching for Yoongi’s eyes, dark and wild, lust pooled there like tar.

Yoongi is covered in the spurts of his cum, the ropes of white suiting his milky skin. He has cum on his mouth, his chin, his neck. Namjoon doesn’t know what to say – because it’s mesmerizing, his hyung looking like that only because of him. It’s so erotic Namjoon is paralyzed. Yoongi pulls back and wipes at his chin, then darts his tongue out to taste the come on his lips. Before Namjoon can recover, Yoongi clambers up and straddles him.

“Stay still.”

He pulls his pants and underwear down in one stroke, and Namjoon can linger his gaze on his flushed cock without an ounce of shame. It’s heavy between them, just the perfect size, and pink. It stands hard, desperate for some kind of touch. And then Yoongi swipes some of the cum off his neck and uses it as lubrication as he starts stroking himself.

Namjoon watches as Yoongi rubs his cum into his own cock to make the slide of his fingers wetter, easier. The image that will keep him up at night: watching his bandmate, his friend, use his cum as lube without thinking twice, as if led by this unbearable craving that’s leaving him a mess, hair sticking up everywhere and skin blotched – it puts him over the edge. All Namjoon can do is breathe hard and watch as Yoongi works himself up, fitting his damp fist around his cock, jerking himself off with long, erratic strokes, chasing after that pleasure that makes him so ravaged, plush bottom lip trapped between his teeth, eyes fixated between their bodies.

“You’re killing me” is the only thing Namjoon manages to say, with the way Yoongi is clinging to him, that hungry need for release in every stroke – he smells like come, like anger, like desperation. One of Namjoon’s hands slides down to the base of Yoongi’s throat, no force behind the touch, just resting there, making his own presence known. As if Yoongi wasn’t already aware of him.

He hooks a thumb between Yoongi’s lips and pries his mouth open, pressing down on his bottom front teeth, the edge of his index finger resting under his chin. And Yoongi bites down, hard, eyes fluttering. Squeezes his length, adding extra pressure and a twist when he gets to the reddening tip Namjoon’s gaze is fixated on, and cums in his fist with a low moan – one Namjoon muffles over his own lips, in a kiss that’s bitter and sweet and has a devastating finality to it.

And there they are, cocks bare and flush, hands combing each other’s hair, exchanging warm breaths, rough songs still pounding in their ears. Namjoon swallows and tries to locate his voice, the image of a come-smeared Yoongi masturbating over him still stuck in his head.

“Are you okay, hyung?”

Yoongi simply hums, still coming down from wherever his mind went.

“That was fucking good.”

Yoongi hums again, all the way from the back of his throat, and smiles. It’s a shy one, small, barely stretches his abused lips. One he tries to hide by lowering his head, but Namjoon catches it anyway.

And it’s unfair. Because that smile sounds like it’s easy to do all this. Like it’s easy to be intimate and casual.

But it isn’t.

And they both know it.

donnievt: (Default)

BTS [jikook], scritta per il cowt11 sotto il prompt "luna park".
Rating: safe
Warnings: /



-------






Scappare a Tokyo per un paio di giorni, lontano da coreografie e interviste programmate, senza dire nulla a nessuno, era stata un’idea di Jimin – solo noi due Kook-a, ci divertiamo un po’, direi che ce lo meritiamo, non credi? e Jungkook non aveva potuto fare altro che annuire. Non si era nemmeno sentito in colpa a non aver avvertito gli altri hyung, non quando Jimin si era premurato di munirsi del più bel sorriso che gli avesse mai visto e aveva cominciato a fare smorfie alla piccola videocamera che Jungkook aveva voluto portarsi dietro.

Anche adesso, che sono entrambi seduti su una tazzina girevole e Jimin sta mettendo tutto sé stesso nel farla vorticare il più velocemente possibile, un imbarazzante cappello di Topolino sulla testa e le labbra appiccicose a causa dello zucchero filato, Jungkook non si pente di nulla: non di averlo baciato spudoratamente mentre aspettavano il loro turno verso la Space Mountain, non di avergli offerto un morso del proprio panino, lasciando che le proprie dita sfiorassero la sua bocca di proposito nel momento in cui Jimin aveva addentato una gigantesca orecchia di pane, guadagnandosi il suo sguardo malizioso, le guance piene e la punta del naso sporca di salsa.

Avrebbe avuto un bel daffare a cancellare dal video tutti quei frame pieni di desiderio – espresso con una spontaneità disarmante, una che non è loro concesso mostrare nella quotidianità, non davanti a tutte le persone che si occupano delle loro vite così meticolosamente. Ma a stare così, a ridere sotto le luci calde del parco, le mani intrecciate e i piedi che saltellano verso la prossima attrazione, Jungkook realizza che non importa. Va bene così. Non vuole condividerlo con nessuno, d’altronde, questo Jimin che lo guarda con gli occhi a mezzaluna, come se fosse ancora un bambino.

donnievt: (Default)
Originale [galaxy burgerz - rekyp], scritta per il cowt11 sotto il prompt "qualcosa di color pastello".
Rating: nsfw
Warnings: /



------





“Look at me, Kyp.”

They try to advert their gaze but Remy’s voice vibrates so deep, with so much lust, that the only thing Kyp can do is spare a glance between their legs, at how the other is dutifully on his knees right in front of them, cum pooling on his tongue and drooling over his pretty plump lips, now red from sucking so gracefully at their cock. And it’s a scene, really, one Kyp feels madly attracted to, like they’re incapable of looking away now that both their eyes are locked and Remy is pinning them down with his stare only.

Remy quietly rubs a hand over his mouth, in the most infuriatingly seductive way, colorful thick liquid staining his fingers. “It’s blue this time,” he says with a little grin, and Kyp has the sudden desire to kiss him, “you had fun, huh?”

Kyp really doesn’t know what the color of their cum means, just like they don’t know what the color of their skin means when it changes abruptly, without warning, if they’re with Remy – but apparently Remy has found a pattern in the palette of their body, and notices brushstrokes of tones and shades where Kyp never had the heart to look. And there’s no denying this: their cum is now a pastel blue, all painted over Remy’s beautiful face and hands, as opposed to the light shade of red from their previous time together.

Remy brushes his now stained digit over Kyp’s lips, unexpectedly pushes it in their mouth, letting them taste their own flavor – and Kyp finds it bitter but it doesn’t matter because the other’s smile is so achingly sweet, it balances everything out.

“It seems I’m really good at talking you out of your orgasm, you like my praises so much.”

Kyp just scoffs.

“Shut up, I’m gonna take care of you next.”

donnievt: (Default)
BTS, scritta per il cowt11 sotto il prompt "If you have something good in your life, don’t let it go".
Rating: safe
Warnings: /



------







Le urla sono così forti che gli risuonano nella testa nonostante gli auricolari, milioni di piccole luci che quasi lo accecano mentre ondeggiano ritmicamente. Namjoon ha il microfono puntato verso la folla che riempie lo stadio, e gli altri membri seguono il suo gesto, smettendo di cantare e lasciando che siano i fan a farlo, una melodia sconnessa ma potente che sembra faccia quasi tremare il palco – è questa la loro forza, lo sa bene, questo il motivo per il quale vivono: per i cori con i loro nomi gridati a squarciagola, per gli striscioni con su parole di conforto, per le mani alzate e i piedi che non toccano il pavimento, per i sorrisi e le lacrime che scorgono tra le prime file, per l’onda viola che li travolge alla fine di ogni concerto. Ed è una magia che non è equiparabile a nient’altro che Namjoon abbia mai conosciuto in vita sua, e non importa quante volte l’abbia visto e quante volte ancora continuerà a vederlo, perché quello spettacolo lo lascia senza fiato, sempre.

E pensa che ne valga la pena, aver sofferto così brutalmente per tutti questi anni – aver visto Taehyung raggomitolarsi in un angolo del bagno, il suo intero corpo scosso dai singhiozzi, Jungkook accanto a lui con gli occhi così assurdamente grandi e le lacrime che gli scorrono sulle guance senza vergogna; aver osservato Jimin rifiutare ogni pasto con un’ostinazione malsana, gli occhi stanchi e incapace di mettersi in piedi senza traballare almeno un po’; aver dovuto recuperare Yoongi dallo studio in cui si era barricato senza bere, dormire o mangiare, avvolto in una matassa di panico e pensieri che non avrebbe confessato mai a nessuno e che lo avrebbero divorato dall’interno lentamente; aver dovuto ascoltare la voce di Seokjin cantare ogni sera, troppo roca e greve dalle impossibili sessioni di allenamento per paura di non essere mai abbastanza e non poterli mai raggiungere, o aver scovato Hoseok ancora intento a massacrarsi in sala prove, i piedi sempre più veloci, le braccia colme di lividi, il sudore che gli si accumula sulle ciglia e non gli permette di vedere i suoi sbagli allo specchio.

Pensa che valga la pena, averli ascoltati insultarsi e litigare, le loro voci piene di veleno, e averli visti abbracciarsi nei giorni seguenti, le facce contratte in smorfie colpevoli perché abbiamo solo noi altri hyung, dobbiamo stare vicini, se siamo insieme funzionerà, hai ragione Joon-a, non facciamo gli stupidi. E che idea stupida sarebbe stato sciogliersi, lo realizza adesso con una chiarezza dirompente, mentre all’epoca gli era sembrata un’idea così semplice, che li avrebbe tolti definitivamente da quel sogno che aveva cominciato ad assomigliare pericolosamente ad un incubo, uno di quelli che sembrano non avere mai fine, da cui non riesci a svegliarti.

Ma adesso sa, Namjoon avrebbe perso la presenza di sei altri fratelli, e si chiede spesso come sarebbe stata la sua vita senza la risata squillante di Hoseok nei momenti in cui avrebbe voluto solo urlare, o senza le mani di Yoongi sapientemente poggiate sulle sue spalle il giorno prima di una nuova release, i pasti caldi di Seokjin ogni sera come un balsamo profumato dopo gli allenamenti, il sorriso adorante di Jungkook ad ogni intervista, le braccia di Taehyung che lo cercano e lo accolgono senza chiedere, i sospiri di Jimin che lo ancorano alla realtà nelle notti in cui tutto diventa scuro.

E avrebbero perso momenti come questo, per sempre, in cui se chiudono gli occhi si deliziano dell’amore che li invade, ed ha una forma strana: quella di milioni di persone che cantano, forever ever ever we are young, e loro lo sentono sotto la pelle, nelle ossa, è la felicità che tanto hanno rincorso e che hanno maledetto, che hanno bramato come nient’altro nelle loro piccole mani da ragazzini, e che adesso fa fiorire sorrisi delicati sulle loro labbra secche e screpolate.

Namjoon guarda gli altri, ammira il modo in cui osservano grati lo stadio, mille stelle che ballano nei loro occhi umidi, ed è una galassia in cui continuerebbe a perdersi, non importano le circostanze, non importano le ferite. Averli accanto adesso è come respirare – lo tiene vivo.

Che peccato sarebbe stato, non essere Bangtan.

donnievt: (Default)
BTS Heist AU [namjin], scritta per il cowt11 sotto il prompt "soldi di mahmood".
Rating: safe
Warnings: /



------





È notte fonda, ma Namjoon è ancora immerso nelle luci calde del grande salone di casa Kim, musica pregiata di sottofondo e gli schiamazzi degli invitati nelle orecchie. È poggiato con la schiena alla parete, le braccia incrociate, nella posizione migliore che ha trovato per osservare la partita di biliardo che si sta svolgendo poco distante – o, meglio, per osservare la figura di Seokjin: come il suo corpo si allunga sul tavolo con eleganza, le dita che sfiorano appena il panno verde, il modo in cui si morde il labbro inferiore prima di dare un leggero colpo alla stecca e, inevitabilmente, mancare la palla 7 per l’ennesima volta quella sera.

Le risa dei commensali – amici di padron Kim – si levano istantaneamente, e nemmeno Namjoon riesce a trattenere un piccolo ghigno nel vedere l’altro passarsi una mano tra i capelli neri, adesso troppo lunghi, esasperato ma divertito dall’ilarità della situazione, affatto imbarazzato degli errori che lo hanno portato a non avere ancora nemmeno un punto, nonostante abbia cominciato a giocare già da un’ora buona; invece, Jin ascolta cordiale i consigli che gli altri partecipanti gli stanno dando come se non fosse già un uomo ma ancora un ragazzino, mani raggrinzite che battono sulle sue spalle larghe con scherno, sei ancora giovane per poter vincere, Seokjin-ssi, non hai il talento di tuo padre. Ma Namjoon sa che l’espressione che vede dipinta sul suo volto, quel sorriso affabile, gli occhi socchiusi in una mezzaluna perfetta, è solo una cortesia, e gli provoca un leggero brivido lungo la schiena: il primogenito della famiglia Kim potrà non essere un prodigio del biliardo, certo, ma il suo valore supera nettamente quello di tutti coloro che adesso stanno dileggiando le sue abilità, e sa che anche Seokjin stesso ne è perfettamente consapevole. E per questo lascia che i vecchi colleghi di suo padre parlino, senza battere ciglio, che si crogiolino nella sicurezza di essere migliori, più saggi, più furbi, che abbiano l’illusione di starlo deridendo – ma solo perché è lui stesso a permetterlo, per tenerli ubriachi e soddisfatti prima di discutere di affari, più in là nella serata.

È solo qualche minuto dopo che lo vede avvicinarsi nella propria direzione, viso stanco ma labbra ancora stirate in un sorrisetto compiaciuto. Seokjin gli si mette accanto, spalla poggiata alla parete, sguardo rivolto solo a lui – una meritata pausa da quella festa così snervante.

“Hai perso”, gli dice Namjoon. Non è una domanda, e ride a sentire il verso lamentoso che scappa dalla bocca dell’altro.

“Gioca per me, Joonie. Riscatta la mia dignità in quanto padrone di questa casa.”

“Cosa ti fa pensare che vincerei?”

E, solo per quel momento, Namjoon vede la linea morbida dei suoi occhi farsi seria, un peso nello sguardo di Seokjin che lo àncora dov’è, lasciandolo incapace di muoversi – ed è la stessa forza che ha imparato a conoscere negli anni, che si nasconde dietro quei lineamenti delicati, la sua presenza regale, ma c’è, e lo tormenta e lo eccita allo stesso tempo. Come una falena che muore a causa dell’insopportabile calore della luce che l’ha attratta, così Namjoon sa che Kim Seokjin è una trappola ben congeniata, un terreno che lo inghiotte inesorabile e da cui non sarà mai in grado di liberarsi. Ma, onestamente, non gl’importa.

Non più.

“Mi fido di te, Joonie. Vinceresti di sicuro, per me.”

È tutto ciò che dice Seokjin, e gli basta.

 

-

 

La vita di Namjoon è sempre stata guidata dai soldi.

Non perché la sua famiglia fosse particolarmente ricca, no, affatto. Ma sua madre, la donna che ha fatto finta di crescerlo con affetto per tutti quegli anni, aveva anche un fiuto eccezionale per gli affari – e non si trattava di offerte di lavoro, di promozioni, di investimenti azzeccati, assolutamente no: si trattava di uomini.

È un’arte calcolata, scegliere l’uomo giusto nella rigida città di Seoul, l’uomo che sia disposto a prendersi in carico una donna bellissima, sì, ma con aspirazioni e passatempi decisamente troppo costosi per la sua età, e il figlio che si porta dietro, un presunto genio dalla statura alta e le spalle ossute; l’uomo che possa spingerli, a poco a poco, verso i gradini più alti della società, e salvarli dalla loro condizione di nessuno, banali cittadini con non più di uno zero nelle carte di credito. Non che a Namjoon fosse mai importato qualcosa, in realtà, del denaro che possedevano: a lui certamente bastava, ma sua madre aveva sempre ripetuto che loro due meritassero il meglio che il mondo avesse da offrire.

Namjoon non ha mai avuto la forza per biasimarla – non quando lei l’ha allevato da sola, combattendo con unghie e denti perché non gli mancasse mai nulla di concreto, non un libro per corsi avanzati, non un pasto comprato alle macchinette della stazione – ma a volte ha pensato se sua madre non si fosse venduta, per quella vita così agiata che tanto aveva agognato, se non avesse fatto troppi compromessi – come sulla dignità, forse, sicuramente sull’attenzione che non ha mai avuto per lui, sicuramente sulle notti che ha passato nei salotti addosso a chissà quale avvenente magnate. A volte ha pensato se fosse così necessario, scalare per non essere divorati dalla povertà, ingannare con baci, coccole, carezze, promesse di anelli e diamanti che invece non arrivavano mai e allora era meglio fuggire verso altri lidi, cercare nuove opportunità.

A volte ha pensato se questo fosse l’unico modo per realizzarsi. E la risposta che ha sperato fosse quella giusta era una sola: no – sarebbero stati gli studi a portarlo alla vetta, non i soldi, non la scaltrezza. Unicamente i suoi meriti.

Non si era stupito, quindi, quando sua madre gli aveva annunciato, poco tempo dopo il suo quindicesimo compleanno, di avere un nuovo fidanzato, il sorriso brillante come se fosse un’adolescente. Namjoon l’aveva vista comportarsi a quel modo per troppe volte in vita sua, ma quel giorno gli era sembrata diversa, i suoi occhi con una tinta definitiva che per un momento lo avevano fatto ingoiare a vuoto.

Joon-a, gli aveva detto, non sei contento, lui è forte e ricco e non ha problemi a chiamarci ‘famiglia’.

Non sei contento Joon-a, aveva ripetuto, sarà lui a pagarti gli studi, adesso che stai diventando grande.

E sua madre, quella volta, aveva detto la cosa giusta. Forte e ricco: l’uomo di cui si era invaghita era niente meno che uno dei fratelli della casata Kim. E da solo, quel nome, aveva messo a tacere Namjoon, come una sentenza che gli aveva fatto contrarre le spalle, abbassare la testa in un muto segno di riverenza – di paura. Namjoon avrebbe preso il cognome della famiglia più potente di tutta Seoul, se non di tutta la Corea del Sud; avrebbe portato il fardello delle loro gesta, della loro avidità, della loro brama di comando, e supremazia, e denaro.

Di tutto ciò che gli faceva rivoltare lo stomaco.

Non era sciocca, sua madre, e sapeva esattamente nelle braccia di chi si fosse buttata: l’aveva fatto coscientemente, sacrificando qualsivoglia morale a favore del lusso, dell’oro che avrebbe portato tra le dita, di una vita più semplice perché abbiente, perché prestigiosa, perché potente. Le girava la testa al solo pensiero di essere così in alto, e di non aver bisogno di scalare ancora. Era già sulla vetta.

Quel giorno, Namjoon aveva chiuso i pugni così forte da ferirsi la pelle, e aveva promesso a sé stesso che non sarebbe mai diventato come lei. Non si sarebbe mai venduto per del denaro sonante.

Ma le promesse, avrebbe scoperto, sono proprio fatte per essere infrante.

 

-

 

“Namjoon-a, hai paura dei nostri soldi?”

Quel giorno era rimasto a studiare nel piccolo salone dell’ala est, troppo concentrato sul testo da tradurre per far caso a molto altro. Aveva alzato la testa dai fogli su cui era stato piegato per chissà quante ore, rivolgendo uno sguardo confuso all’altro ragazzo presente nella stanza, che invece stava comodamente seduto su una raffinata poltrona in pelle nera, il pollice in mezzo alle pagine del libro che stava leggendo per tenerne il segno.

Era il figlio del più grande dei fratelli Kim – colui che tirava le fila di tutta la famiglia, apparentemente – e la prima volta che Namjoon l’aveva conosciuto, più di sei mesi fa durante la sua primissima visita alla villa nella quale sarebbe inevitabilmente andato a vivere, aveva sentito come se uno spillo sottile gli avesse punto appena sotto la nuca, una sorta di avvertimento: Kim Seokjin era elegante, con i tratti ancora infantili del viso nonostante avesse due anni più di lui, e la delicatezza usuale di chi è da sempre cresciuto nella bambagia. Ma una piccola parte di Namjoon, quella volta, aveva avvertito pericolo – e in quel primo momento aveva pensato che fosse assurdo, ma più era passato il tempo più si era fidato della prima impressione.

L’intensità della forza di Jin era sottile, invisibile agli occhi che non gli prestavano abbastanza attenzione, ma così lampante ai propri. E anche adesso, che l’altro lo stava guardando con un’espressione serena che accentuava ancora di più i suoi lineamenti rotondi, Namjoon poteva sentire chiaramente il proprio respiro vacillare. Ma l’orgoglio gli avrebbe impedito con tutte le forze di mostrarlo.

“Ho sentito che hai rifiutato l’assegno che lo zio ti aveva promesso perché frequentassi il corso avanzato.”

Namjoon si era limitato a mugolare qualcosa che somigliasse ad un’affermazione. Non avrebbe permesso che quei soldi costruissero il suo futuro – non se arrivavano dal fidanzato di sua madre, che avrebbe poi preteso da lui assoluta fedeltà e gratitudine, e Namjoon non era ancora pronto a piegarsi a quel tipo di accordo. Non era un prezzo adeguato da pagare per vendersi.

“Ed è per questo ti sei messo a fare il barista in quella bettola? Perché sei sicuro di riuscire a pagarlo da solo, il corso, con la miseria che ti pagano?”

Aveva sentito la rabbia attraversargli l’intero corpo, fermarsi all’altezza dei suoi denti stretti, della punta arrossata delle sue orecchie. Come si permetteva? Seokjin non era affatto nella posizione di giudicare o di metterlo in ridicolo, non quando non aveva mai dovuto lottare per nulla in vita sua, quando era già nato in una famiglia alla guida dell’impero economico più grande di tutta Seoul, con tutto quello che si potesse desiderare in una società così crudele e classista come quella in cui vivevano: denaro e potere. Non servivano nient’altro, e Seokjin le possedeva entrambe, insieme alla grazia della sua figura attraente e fatale allo stesso tempo.

Eppure quello che lo aveva sconvolto di più non era stato quel commento, quanto il fatto che Seokjin avesse ragione: aveva centrato il punto con una precisione millimetrica, perché Namjoon sapeva benissimo che, per quanto duramente avesse potuto lavorare, non sarebbe comunque mai riuscito a pagare il corso avanzato, meno che mai i materiali che gli sarebbero serviti – e aveva allontanato questo pensiero per lungo tempo, nella speranza, forse, che succedesse un miracolo e i soldi si moltiplicassero come per magia; ma in quel momento le parole di Seokjin erano una lama puntata al collo, il filo spaventosamente vicino alla pelle, e Namjoon si era sentito in gabbia. Perché era stato uno stupido a non aver ascoltato le previsioni e i calcoli che si era costretto a fare con le mani nel portafogli, perché era stato solo un illuso al pensiero di poter continuare gli studi contando solo sulle proprie forze, perché per quanto si sforzasse il denaro era ciò che lo comandava e questo pensiero lo aveva fatto sentire impotente, un inutile nessuno che si dimenava per uscire da una prigione che gli era, invece, stata costruita addosso, dando spettacolo della propria debolezza a chiunque lo guardasse dall’esterno.

E perché era stato uno stupido a rimanere in silenzio davanti a quel che era una palese provocazione da parte di un ragazzino viziato. Era sbottato.

“Cosa vuoi saperne tu, eh? Credi che tutto piova dal cielo come per te? Credi che io abbia le tue stesse opportunità? O vuoi solamente prendermi per il culo?”, aveva urlato, buttandosi in avanti per poter guardare meglio l’altro in viso, le spalle rigide, il calore nelle guance insopportabile.

Seokjin, invece, l’aveva semplicemente osservato, senza muoversi, per niente impressionato dalla scenata a cui aveva appena assistito. Nessuna traccia di scherno sul viso, nessun sorrisetto da prendere a schiaffi, neanche un accenno di commiserazione negli occhi. Namjoon aveva esitato, incapace di capire perché l’altro non si stesse accanendo su di sé e, più di tutto, perché non riuscisse a trovare, in quell’espressione, nessuna delle accuse che aveva immaginato. Che si fosse sbagliato?

Alla fine Seokjin si era alzato dalla poltrona, sfiorandogli appena il braccio, e aveva poggiato una piccola pila di banconote sul tavolo, accanto ai propri fogli. Anche solo ad una prima occhiata, era un ammontare assurdamente alto. Si era sentito mancare.

“Sono miei, Namjoon-a, non devi restituirmeli, non m’interessa. Tua madre e mio zio non sapranno mai che li hai presi. Continua a studiare, così potrai insegnare un po’ d’inglese anche a me.”

Namjoon era rimasto in silenzio.

“E tu cosa ci guadagni, hyung?” aveva mormorato poi, l’attenzione rivolta completamente all’altro ragazzo.

“Sei una scommessa”, aveva detto Seokjin, e aveva sorriso, in quella maniera familiare che non mostrava mai. Quasi con affetto. “La mia scommessa.”

Namjoon aveva abbassato la testa, allungando la mano con vergogna per prendere il folto mazzetto e infilarlo nella tasca dei jeans, senza una parola. Si sentiva sporco: per un certo verso, aveva tradito la promessa che aveva fatto a sé stesso, perché i soldi di Seokjin non erano sicuramente più puliti di quelli del fidanzato di sua madre – eppure, per qualche assurdo motivo, di Seokjin si fidava. Anche adesso, a sentire il suo sguardo sulla pelle, Namjoon non si sentiva colpevole. O meglio, era una colpa che pensava di sopportare. Solo perché, ad infiggerla, era stato Seokjin.

E, ancora una volta, si era promesso di essere migliore. Di pensare più veloce, essere sempre un passo avanti, non farsi sfuggire nulla – se mai l’altro l’avesse fregato, Namjoon sarebbe stato pronto. Era questa la scusa che il suo cervello aveva accampato, quel giorno, per allontanarsi dalla paura troppo presente di star cominciando a somigliare a sua madre.

 

-

 

Ma il sangue non mente.

Namjoon lo aveva scoperto quando, allo scoccare dei suoi venti anni, Seokjin aveva richiesto la propria presenza nelle sue stanze, la voce priva di quella compostezza che tanto lo distingueva.

Gli aveva presentato Min Yoongi.

Quel nome lo aveva paralizzato all’istante, bocca secca e fiato sospeso: la famiglia Min era la seconda più potente nell’intera Seoul, eterna rivale della famiglia Kim, e particolarmente nota per i suoi metodi poco ortodossi di azione in situazioni estreme. E allora perché uno dei suoi eredi era in questa casa, seduto a gambe incrociate sul tappeto, con due portatili molto costosi davanti e un’altra dozzina di apparecchiature sparse per tutto il pavimento? Perché sembrava essere assolutamente a suo agio anche se si trovava nella tana del nemico? Era un’occasione pericolosa e tutti e tre, era sicuro, ne erano perfettamente consapevoli. La mente di Namjoon aveva cominciato a fare salti e congetture, e Seokjin aveva sicuramente percepito la sua espressione aggrottata perché si era affrettato a poggiargli una mano sulla spalla, gli occhi rassicuranti.

“È innocuo, Joon-a. Un amico.”

Nonostante i cinque anni passati in quella villa – passati con Seokjin, non aveva mai saputo di quest’amicizia. Il pensiero gli aveva portato un fastidioso peso all’altezza del petto, la rabbia causata dalla confusione e dal pensiero di un possibile inganno aveva cominciato a montargli nelle ossa.

“Cosa ci fa lui qua?” aveva detto, sottraendosi al tocco di quelle mani esili.

Yoongi non aveva nemmeno fatto cenno di averlo ascoltato, nonostante Namjoon sapesse benissimo che lo aveva fatto. Invece gli aveva lanciato un’occhiata tagliente, da sotto i capelli biondi e slavati, probabilmente danneggiati dalle troppe decolorazioni.

“Jin-hyung mi ha detto che sei bravo con certe cose,” gli aveva semplicemente spiegato “e mi serve una mano.”

E poi aveva aggiunto, “sono sette milioni”.

Namjoon aveva capito, e aveva sgranato gli occhi d’istinto. Sì, gli era certamente capitato di aiutare Seokjin in queste faccende prima – era inevitabile, facevano parte della stessa famiglia adesso e Seokjin lo aveva accolto a braccia aperte, donando senza mai chiedere nulla in cambio, nonostante la reputazione del nome Kim. Aveva partecipato a molte delle sue “vendette”, che consistevano in atti di hackeraggio ai danni delle persone che non gli andavano a genio e che lo avevano sfidato apertamente, e che spesso richiedevano abilità matematiche e linguistiche che Namjoon possedeva, furbo e sveglio come era sempre stato: a volte avevano preso dati sensibili per poter fare ricatti, a volte informazioni troppo personali, altre volte ancora denaro. Ma non era mai stata una somma così alta.

“Mio padre ha ordinato, e ora devo eseguire. Ma ho bisogno di te.”

La voce di Seokjin era arrivata autoritaria, con una punta di fastidio che Namjoon adesso sapeva potesse emergere quando parlava degli incarichi che padron Kim gli affidava – come a verificare le abilità del primogenito che un giorno avrebbe ereditato l’impero, se fosse stato in grado di succedergli meritatamente – ma si era ammorbidita nel rivolgersi a lui. E Namjoon non aveva potuto far altro che annuire.

Si era seduto accanto a Yoongi senza fiatare, le loro spalle così vicine da sfiorarsi, a condividere due auricolari mentre cifre e numeri scorrevano veloci sugli schermi, Seokjin in piedi dietro di loro ad osservarli con attenzione. Era stato difficile tenere testa ai ragionamenti di Yoongi, che era evidentemente molto più bravo di lui a navigare stringhe di codici complesse, e imparare ad utilizzare tutti gli altri strumenti che si era portato dietro – ci erano stati un pomeriggio intero, tra dita che indicavano frenetiche e imprecazioni mormorate sottovoce, la tensione pesante sui loro sguardi attenti, sulle spalle rigide e le labbra strette. Si erano ridotti a sudare, mentre appuntavano gli ultimi passaggi sul taccuino e ritentavano per l’ennesima volta, gli occhiali stretti sul naso di Namjoon e le mani di Yoongi veloci sulla tastiera. C’era stato un minuto di silenzio in cui avevano semplicemente contemplato tutte quelle cifre, stanchi e affaticati come se avessero corso, la tensione ancora visibile nei loro muscoli contratti, finché non avevano visto lo schermo ricoprirsi completamente di nero e Namjoon aveva percepito Seokjin irrigidirsi dietro di sé. Poi Yoongi aveva premuto un dito sulla tastiera, e sul viso, illuminato dalla luce verde riflessa del computer, gli si era aperto un enorme sorriso compiaciuto.

“Cazzo,” aveva detto “abbiamo sette milioni.”

Le loro urla erano esplose, rauche e vibranti, dopo un attimo solo di silenzio. Seokjin lo aveva stretto a sé, nella foga, un braccio attorno alle spalle, l’espressione più estasiata che Namjoon gli avesse mai visto sul viso – ed era come uno specchio, perché sapeva bene di avere una smorfia simile sulle proprie labbra. Avevano esultato come ragazzini, ridendo euforici della loro vittoria, del denaro che avrebbero sperperato a piacimento, inebriati da quella sensazione di trionfo che li aveva resi leggeri e pieni di un orgoglio sciocco, di una superbia che avrebbe continuato ad inghiottirli interamente e alimentarli, fuoco labile che sarebbe bruciato nei loro petti e trasformato in una vampa pericolosa, un calore letale.

“Bravo, Joon-a,” gli aveva sussurrato all’orecchio Seokjin, il fiato caldo contro la propria pelle, ubriaco, sì, ma non di soldi, non di potere, ma di quel successo che avevano conseguito insieme, ancora una volta – anche se questa sembrava così diversa. E poi, di nuovo, “la mia scommessa migliore.”

E Namjoon in quell’istante aveva pensato che, forse, la sensazione travolgente di vertigine non fosse data affatto dai soldi. E che ne avrebbe voluto ancora.

 

-

 

“Hyung, non voglio che tu mi tenga più nascosto nulla.”

Lo aveva detto, il giorno dopo, mentre erano da soli nella camera, l’eccitazione delle ore precedenti sparita per fare posto ad una sensazione fastidiosa a cui Namjoon non aveva saputo dare un nome – non aveva voluto dare un nome. Perché se Seokjin gli aveva mentito su Min Yoongi, e se l’aveva fatto con una grazia squisita fino a quel punto, allora poteva star mentendo da anni – e, peggio, Namjoon ci aveva creduto, perché si era così tanto abituato alla presenza dell’altro, ai suoi modi di fare, alla maniera in cui erano soliti stare vicini alle serate di gala, che aveva abbassato la guardia, come uno stupido. Si era fatto manipolare, forse, e l’aveva fatto con coscienza. Aveva coltivato, dentro di sé, un’emozione così strana per lui, che si era sempre considerato un uomo razionale – ma le sensazioni che aveva provato ogni volta che si era trovato in presenza di Seokjin, nel corso di questi cinque anni, quell’euforia che gli aveva fatto dimenticare ogni morale e lo aveva fatto vivere nel rifiuto della realtà da cui aveva invece promesso di non allontanarsi, ecco, nonostante non fosse riuscito a comprenderle, lo avevano divorato comunque, imperterrite, implacabili. Come Seokjin.

Che adesso gli stava sorridendo, affabile.

“È una pretesa divertente, Joon-a,” l’espressione interessata, “perché, non ti fidi di me? È per la questione di Yoongi? Andiamo, ti ho già detto come stavano le cose. Dovevo proteggerlo, nasconderlo dalla sua famiglia. È stato necessario.”

Ed era vero, Seokjin gli aveva spiegato solo successivamente tutta la situazione e come fosse stato assolutamente indispensabile tenerlo all’oscuro della presenza di Yoongi nella villa e nella sua vita. Namjoon l’aveva accettato, era comprensibile. Eppure, da qualche parte all’interno della sua mente, qualcosa aveva continuato a pizzicare, a pungerlo lentamente: la consapevolezza che il loro rapporto non fosse così indispensabile, così esclusivo da metterlo subito al corrente dell’accaduto; sapere che Seokjin avesse segreti che non era disposto a confessare, che Namjoon non fosse l’eccezione – ed era così assurdo, perché sapeva di averle rinnegate, le attenzioni di Seokjin, per lungo tempo, con la paura di vendersi a qualcosa che non aveva la possibilità di controllare e che invece avrebbe potuto controllarlo. E Namjoon non aveva saputo affatto capire perché, tutto d’un tratto, bramasse queste richieste così irrazionali; non era riuscito a spiegarsi quale forza gli avesse permesso di stare, adesso, davanti all’altro, mani nelle tasche, occhi fissi sulla sua figura esile.

Non aveva risposto, continuando a mordere il labbro inferiore con una flemma invidiabile.

Si era sentito come se, per tutti questi anni, Seokjin avesse avuto il palmo della mano premuto sul proprio petto, ad un’altezza troppo vicina al cuore, e avesse continuato a fare pressione lentamente ma con decisione, soffocandolo, togliendogli il fiato. Ma anziché sentirsi morire, Namjoon aveva percepito il proprio corpo formicolare, e una impressione quasi nauseante alla bocca dello stomaco che però, aveva deciso, non era dolore. Non poteva esserlo, perché si sentiva come se potesse conquistare qualsiasi cosa, quando era con Seokjin. Bramava la sua attenzione.

E stranamente, aveva voluto sapere se anche l’altro sentisse questa stretta insopportabile che li legava.

Un compromesso, era questo che stava cercando – o meglio, una rassicurazione. Qualcosa che lo facesse sentire ancora più al sicuro al fianco di Seokjin, qualcosa che allontanasse la terribile necessità di spingerlo via, di non fidarsi più, di scappare prima che quel mondo e quegli occhi potessero avere troppo controllo su di lui. Anche se, lo aveva capito, era ormai troppo tardi, e non avrebbe comunque mai avuto il coraggio di fuggire, abbandonarlo. Questa scoperta lo aveva tenuto sveglio durante la notte, mentre ripensava al modo in cui l’altro lo aveva stretto, il giorno prima, nel momento in cui aveva scoperto di aver vinto.

Namjoon era stata una priorità.

Alla fine Seokjin aveva sospirato, senza smettere di sorridere.

“Va bene, Joon-a. Sono d’accordo. Ma in cambio,” e Namjoon aveva sentito il tono della sua voce cambiare, farsi più profondo, pericoloso, così familiare perché assomigliava assurdamente alla sensazione che aveva provato anni fa e che ancora ricordava – anche adesso Seokjin gli avrebbe puntato una lama alla gola, nonostante non si stessero nemmeno sfiorando. Ma Namjoon si era sorpreso a non essere spaventato. Solo esaltato. “In cambio, lavora per me. Lavora con me.”

E Namjoon, in quel momento, aveva compreso quello che non era riuscito a cogliere durante il loro primo incontro: che l’innocenza negli occhi di Seokjin si scontrava prepotentemente col modo in cui lo aveva osservato, per tutto questo tempo – con autorità, non come se Namjoon gli appartenesse, no, ma come se fosse ciò che gli era sempre mancato, e lo stesse desiderando con ogni fibra del suo corpo. E Namjoon aveva scoperto che quella sensazione, di essere così disperatamente voluto dall’uomo che lo aveva tormentato dal primo giorno in cui aveva messo piede all’interno di quella famiglia malsana – quella sensazione gli piaceva. E non avrebbe voluto rinunciarci, per tutto l’oro del mondo.

 

-

 

Namjoon ridacchia sommessamente, disteso appena sul panno verde del tavolo, le dita sottili avvolte sulla stecca e gli occhi puntati all’ultima palla in gioco, la numero 7, la stessa che ha decretato la disfatta di Seokjin nella partita precedente. Le da un colpo, sfiorandola appena.

Sarebbe arrivato un giorno in cui sarebbe stato capace di lasciarlo. Ricorda di averlo pensato, Namjoon, quando ha accettato per la prima volta il denaro dalle sue mani: Seokjin avrebbe prima o poi fatto un passo falso, un errore troppo grave, e lui avrebbe approfittato dell’occasione per tirarsene fuori, senza troppe cerimonie, perché in fondo non ha nessun legame, niente che lo trattenga.

Dieci anni più tardi, Namjoon si sente come un magnete, irrimediabilmente attirato dalla figura di Seokjin che, nel tempo, è diventato tutto ciò che non avrebbe mai immaginato. Come se l’altro lo tenesse annodato a sé, possessivo, e a Namjoon, veramente, non importa. Ha accettato di vivere nella tela del ragno: la presenza di Seokjin non gli fa mai sentire il fuoco che lo sta bruciando, a stare lì, e non potrebbe essergli più grato.

La imbuca, la palla 7, con una grazia sconosciuta anche a sé stesso, e non ha certo tempo di rimanere a guardare le facce degli invitati veterani, contratte in smorfie di sdegno, sconfitta – quelle che loro due non hanno mai dipinte sul viso, perché hanno collezionato unicamente vittorie, nel tempo che hanno trascorso insieme. Si dirige verso Seokjin che lo aspetta a braccia conserte, sul divano di pelle, e sa che non ha distolto neanche per un attimo lo sguardo dalle proprie mosse – lo sa perché ha il sorriso migliore che possa mai essere stato scolpito sulle sue labbra: grida orgoglio con una fierezza che lo prende alla sprovvista.

“Ho vinto”, gli annuncia, accomodandosi accanto a lui.

Seokjin gli poggia una mano sulla coscia, un gesto così intimo che lo fa sussultare.

“No, Joonie. Sono io ad aver vinto”.

E Namjoon non è sicuro che si riferisca al biliardo.

donnievt: (Default)
Originale [p.u.l.s.e. - june], scritto per il cowt11 sotto il prompt "l'abito di piume".
Rating: safe.
Warnings: /


------









Jun strizza gli occhi, tenta di aggiustarsi il colletto della camicia candida con gesti nervosi. Sposta una ciocca di capelli dal viso, si inumidisce lento le labbra. Il piccolo specchio che hanno nel bagno della Resistenza gli restituisce una figura che non è la sua – e non gli assomiglia nemmeno. È la sagoma di un ragazzo – no, un uomo, nonostante l’altezza discutibile – con le mani a stringere i lati del lavabo, una forza così esasperata da fargli diventare le nocche bianche, e il viso proteso verso il proprio riflesso, per individuare con esattezza cos’è che non vada in quell’immagine. Ed è pressoché tutto: la sua chioma, che prima era piena e nera, disordinata e indomabile, adesso è di un flebile giallo paglierino, in contrasto con le sopracciglia scure, e il suo prezioso ciuffo è solo un ricordo, sostituito da una sciocca riga in mezzo che lo fa sembrare ancora più fuori luogo di quanto non si senta già.

Il modo in cui è vestito, poi, non aiuta di certo: il colore brillante della giacca che indossa, provvista addirittura di fazzoletto inamidato nel taschino – “perché i dettagli sono importanti”, aveva ribadito Luke, il legittimo proprietario del completo, prima che Jun potesse roteare gli occhi all’insù –, non lo fa certo passare inosservato. Ed è un concetto che non crede di essere pronto a sopportare.

Sono anni che non fa altro che camminare nelle strade meno trafficate dei quartieri di New Prague, anche solo per fare una consegna per suo padre, il cappuccio della felpa ben alto sulla testa e la mascherina nera che gli copre la bocca e le zanne che minacciano di svelarsi alla prima conversazione; anni che si guarda alle spalle ogni volta che apre la porta del grande magazzino in cui ha ormai deciso di vivere, per controllare di non essere seguito; anni che ha dimenticato in che modo pronunciare il proprio nome per presentarsi ad altre persone. Anni che vive nella quiete, nel tentativo di farsi dimenticare dal mondo, di condurre un’esistenza quanto più invisibile possibile – per poi poterla svelare nuovamente appena sarà il momento, nel modo più spettacolare che gli è concesso, quando deciderà di sacrificare il conforto dell’anonimato per tutto ciò che è giusto, per ciò che hanno costruito insieme agli altri Altered. E non è certamente pronto a scambiare questo piano, a cui ha dedicato interamente gli ultimi sei anni, a cui sono legate così tante vite, per una stupida ricognizione.

Eppure è necessaria, si rammenta. Servono informazioni che possono carpire solo spiando i pezzi grossi della Facility, i mezzi che utilizzano, il modo in cui discutono delle novità di Governo, le anteprime sui loro progetti bizzarri che si lasceranno inevitabilmente sfuggire nel momento in cui si trovano nel loro elemento, nello sfarzo e nell’agio, circondati da altri sciacalli così simili a loro – e le hanno già provate tutte, prima di arrivare a questo: hanno osservato i dipendenti della Facility per più di una settimana, nascosti come bestie all’interno di una stanza d’hotel, senza far alcun rumore per paura di essere scoperti; hanno scritto e disegnato piantine strutturali di dozzine di edifici differenti, planimetrie astruse e complesse, controllando vie di fuga, percorsi affidabili che non li portassero ad avere un paio di manette fredde ai polsi, o, peggio, la canna di una pistola puntata direttamente alla tempia; hanno distinto le loro abilità in base all’utilità, gli occhi di Shu-Li iniettati di sangue dalla fatica, le gambe di Enoch piene di lividi, e le spalle di Madeleine troppo muscolose per la sua figura minuta. E poi Imani aveva detto “dobbiamo rischiare”, aveva detto “stando nascosti non riusciremo mai a sapere quel che ci serve”, aveva detto “ho un piano” e tutti si erano fermati ad ascoltarlo.

Si tratta dopotutto di fingersi benestanti, magari figli di qualche funzionario del Governo, importanti ma non abbastanza da essere ricordati, ed intrufolarsi nella serata di gala che ogni mese viene allestita al Palazzo Centrale, con le loro nuove identità, tentando di mescolarsi quanto meglio possibile nell’alta società, per osservare e ascoltare con più facilità. Imani proverà ad hackerare il servizio di registrazione così che possano introdursi senza troppi problemi – a patto che, però, abbiano ottime capacità recitative, e riescano a convincere il personale di essere persone affidabili, persone che si districano bene in quel mondo fatto d’oro e sangue e ringhi nascosti da affabili sorrisi. Essere, insomma, qualcuno che conta, quando in realtà la loro vita ha da sempre avuto lo stesso valore del fango sulla terra sporca.

Quest’inganno, a Jun piace. Fa crepitare un ghigno sulle sue labbra – il pensiero di truffare tutti quei vecchi bavosi che dovrebbero governare la loro città, guadagnare la loro fiducia ed inserirsi nei giusti discorsi, lui, che è solo una bestia.

-

“Dovrebbe andare Jun” avevano concordato tutti, pochi giorni fa, mentre mettevano a punto l’ultimo dettaglio delle carte d’identità che avrebbero utilizzato per entrare quella notte – piene, ovviamente, di informazioni farlocche, entrate in loro possesso grazie al meticoloso lavoro di Luke, e che sarebbero scomparse poche ore dopo dai dati della reception, come se non fossero mai esistite. Jun aveva annuito, ma aveva bisogno di qualcun altro che potesse reggergli il gioco, essere il suo alibi. Imani aveva sorriso, serafico, e aveva messo la mano sulla spalla di Jane, che in quel momento era impegnata a disegnare su carta la piantina del Palazzo Centrale, per quanto potesse ricordarla nel corso delle sue pochissime visite. “Lei sa dove cercare, dove guardare, riconosce i collaboratori di suo padre. Sa come mimetizzarsi. È la scelta più sensata”, e per quanto anche Shu-Li fosse pronta ad utilizzare la sua vista particolarmente acuta per essere d’aiuto, era sicuramente poco prudente aggiungere altri componenti a quel duo che poteva benissimo farsi spacciare per una coppia. Jun si era lasciato sfuggire un colpo rauco di tosse, diretto ad Imani e alla sua fantasia troppo audace, mentre Jane aveva alzato gli occhi verso di lui, l’espressione divertita in viso. Era riuscita a strappargli un mezzo sorriso al solo pensiero.

-

Jun sa che, razionalmente, mandare loro due è l’opzione più plausibile – hanno chimica, sono senza dubbio in grado di fingere e lasciarsi passare per due amanti che si trovano lì perché hanno ricevuto un invito dal loro stimato padre, che pretende assolutamente che ci siano anche loro a questo party imperdibile, per iniziarli alla vita da borghesi, per mostrare loro ciò che li aspetta nel restante corso della loro vita: denaro e potere. E per il momento essere credibili è quello che più importa – al resto penseranno Imani e la piccola telecamera di cui li ha dotati, provvista anche di registratore vocale. Eppure, adesso, che si osserva vestito a quel modo, gli orecchini rossi ai lobi e il fastidioso color oro della sua giacca, non crede di avere esattamente l’aria di un ricco viziato. Pensa che l’odore di bestia lo seguirà, sempre e comunque.

Un paio di tocchi alla porta lo riportano alla realtà. “Insomma, ti decidi ad uscire?”, sbraita Boris dall’altra parte, che vuole sicuramente vedere se il suo improvvisato lavoro da parrucchiere abbia dato i meritati frutti. Jun sospira.

Abbassa finalmente la maniglia, e appena esce dalla camera cerca di sfoggiare la migliore espressione altezzosa che ha nel repertorio, per rimanere fedele al personaggio che dovrà interpretare da lì a poco. Un coro di versi scomposti lo accoglie, e c’è chi batte le mani divertito, chi tenta rispettosamente di trattenere una risata. Imani mostra i denti bianchissimi in un sorriso ampio. “Non stai così male, Jun” – non sembra stia mentendo, e gli altri annuiscono, ma le espressioni beffarde che si scambiano tra loro li tradiscono. Anche Jun si unisce a quell’aria scherzosa con un sorriso amaro che esprime in silenzio tutto il disagio che prova nell’essersi trasformato in ciò che più odia. Nel nemico che sta tentando di combattere da anni.

Solo temporaneamente, solo per stanotte, è l’unico pensiero che lo consola.

“Non è qualcosa che succede spesso, vedere il nostro serioso leader vestito per andare a bere vino di qualità e assaggiare caviale in una serata di gala, non credete?”. Luke gli molla una pacca amichevole sulla spalla, abbassandosi per aggiustargli il colletto bianco. “Certo, per essere perfetto saresti dovuto essere più alto, ma è una fortuna che questo completo l’abbia comprato quando ero più giovane, altrimenti ci avresti navigato dentro”.

“Le ragazze sono con Jane?”, lo interrompe Jun, sottraendosi al suo tocco come un bambino infastidito. Maddie, che solo adesso Jun riconosce tra le spalle degli altri, bassa com’è, annuisce. “Credo la stiano truccando? Io non sono brava in queste cose e quindi sono rimasta qua.”

Anche Jane ha sicuramente passato lo stesso processo di trasformazione che ha subito Jun: vestiti nuovi e per niente simili a quelli che solitamente indossano per rendere comodi i loro movimenti, capelli acconciati, sottile trucco al viso, lenti a contatto, magari, come quelle che sta indossando adesso e che gli mutano gli occhi da un profondo nero ad un mite color ambra. Le altre ragazze hanno preso l’occasione al volo, come se potessero giocare con Jane allo stesso modo che con una bambola, di nuovo, molti anni dopo aver passato l’età per farlo, e allontanare almeno per un po’ le preoccupazioni e la fatica che pesa sulle spalle di tutti loro giorno dopo giorno.

“Dove diamine l’hai preso quel vestito, Luke?”, schernisce Olu, che non possiede nemmeno un minimo dell’eleganza con cui sembra adornarsi l’altro, che invece gli rivolge un sorriso fiero, cosciente di non aver bisogno del parere di qualcuno che è tutto anfibi e jeans strappati.

“È un regalo dei miei genitori per il mio ventesimo compleanno. L’ho indossato così poche volte che come vedi sembra nuovo.”

“E non potevi, non so, chiedere del fumo come tutti i ventenni normali? Magari ti ci saresti divertito più che col vestito, non credo tu abbia rimorchiato granché con quel coso.”

“Credi che mi servisse del fumo per rimorchiare, Olu?” sussulta Luke, una smorfia fintamente offesa sul volto. Tutti gli altri mormorano un misto di e di versi esasperati, già pronti ai loro soliti battibecchi, “e poi se non l’avessi avuto, ora Jun sarebbe vestito da cameriere anziché da conte o duca.”

“Credo più di somigliare ad un idiota, che ad un conte o ad un duca”, confessa Jun, l’espressione piatta e gli occhi seri, che a quanto pare causano una ilarità generale. Non sa se sia per la veridicità delle sue parole o per chissà cos’altro, ma non ha voglia di indagare oltre.

I ragazzi non fanno altro che sbeffeggiarlo per quell’aspetto così insolito rispetto alla persona che hanno imparato a conoscere e rispettare in tutti quei mesi, ed è un susseguirsi di battute leggere e risate sguaiate finché la piccola Ceci e sua sorella Andrea non aprono cerimoniosamente una delle tante porte che costeggiano i muri di quel grande magazzino. Fanno rumore, Ceci sbatte la maniglia contro la parete, piccoli pezzi di intonaco che cadono a terra, mentre Andrea intona una sorta di inno solenne, che è subito interrotto da quella che Jun riconoscere essere la voce di Jane, da dentro, che urla imbarazzata “Smettetela, vi prego!”. Le ragazze si scambiano risolini divertiti, mentre accompagnano Jane fuori dalla camera, e Pasha la presenta al resto del gruppo con un teatrale “Ta-dah!” che la fa stringere ancora di più nel vestito che indossa.

E per un attimo, tutti smettono di parlare e, semplicemente, trattengono il fiato.

È un abito nero, con un corsetto che le fascia la vita morbidamente ed eleganti ghirigori di pizzo che le si avvolgono con una grazia delicata sul petto per poi continuare sulle braccia fino alle mani, interrompendosi in un piccolo sbuffo di stoffa bianca. Ma quello che salta più all’occhio è la gonna: soffice, le cade armoniosa sulle gambe, fino alle caviglie – ma è fatta di piume. Sono piccole penne nere, impilate una sopra l’altra, e anche alla luce flebile del magazzino splendono di riflessi stupendi, così che sembra che Jane abbia un vestito di un colore diverso ad ogni passo che fa, ad ogni angolo del corpo che espone in maniera differente al bagliore delle grandi lumiere che adorneranno la sala del Palazzo Centrale. Le scarpe che indossa la fanno quasi alta quanto lui, e il biondo lucente dei suoi capelli ha fatto posto ad un irruente color cioccolato, e le ricadono sulle spalle in boccoli delicati, eleganti. Proiettano sul suo viso ombre tenui che la fanno sembrare più adulta di quanto non sia, e Jun sente mancare il fiato. È bella come la notte nelle vie principali della città, pensa Jun: buia e cupa, avvolge i mille neon colorati dei locali cercando di inghiottirli nell’oscurità, senza mai riuscirci. Così, anche Jane ha l’aria inavvicinabile del crepuscolo torvo e la purezza dei colori che le danzano sulla pelle nuda delle gambe, sulle spalle scoperte, sui lineamenti dei suoi zigomi, la linea paffuta delle sue labbra rosse. È diventata l’adulta che tanto ha cercato di allontanare, che Jun ha tentato di fermare. E invece è lì.

Jun corre con lo sguardo a cercare l’innocenza con cui l’ha conosciuta nei suoi occhi truccati in maniera elegante, nel modo in cui stira le labbra tinte in un sorriso timido. Ed è così che la riconosce subito, nonostante vesta panni che non le si addicono, nel momento in cui si guardano. Stupidi ed estranei entrambi, giocano a sembrare qualcun altro, eppure è nell’espressione determinata di Jane che Jun scopre quant’è bello poter credere di non essere, poter creare una sottile illusione in cui loro non sono loro, non sono sbagliati, non hanno un conto alla rovescia che determina le loro vite in un insaziabile scorrere di errori, e tentativi, e passi falsi. Hanno la possibilità di essere due gusci, per poche ore – fantasmi di una vita che è troppo aliena per loro, ma che si ostinano a rincorrere, insulsamente, in quelle notti in cui fanno finta di essere normali, a ballare. Jun si chiede se balleranno insieme anche stanotte, in una sala dorata così diversa, che non appartiene a questo posto polveroso dove hanno deciso di mettere le tende.

La trova incantevole.

Sono le mani di Imani, che battono, a distoglierlo da pensieri sciocchi che, in un attimo, si pente di aver fatto. Stringe le labbra in una linea sottile, voltandosi verso l’amico.

“Bene! Direi che è esattamente il travestimento che cercavamo. Sembrate due persone completamente diverse – immagino che nemmeno il padre di Jane saprebbe riconoscerla.”

A quelle parole Jane sembra riprendere il coraggio che era stato nascosto da quella trasformazione così improvvisa. In un attimo gli è accanto, e sorride raggiante. Jun fa fatica a trattenere uno sbuffo affettuoso davanti a quella donna così fragile eppure così risoluta, pronta a fare a pezzi il mondo col suo buon cuore, e nient’altro. “Sembri una diva”, le sussurra all’orecchio mentre stanno mettendo a punto l’essenziale per trascorrere una tranquilla serata a spiare il loro nemico più temuto.

“E tu sembri uno scemo”, gli risponde lei, portando indietro un ciuffo di capelli col solo movimento della testa. Jane lo guarda con gli occhi di chi si sente forte, di chi ha speranza. E Jun ne ha paura. Ha paura che quello sguardo sia lo stesso che lui le sta restituendo, in silenzio. Uno sguardo che solo lei è in grado di generare sul suo viso da bestia.

È appena lei si allontana velocemente, correndo a prendere chissà cosa che ha dimenticato chissà dove, che il vestito che indossa, un po’ troppo lungo sul retro, si muove appena, accompagnando il movimento svelto delle sue gambe e alzandosi nella foga.

Così, Jun crede di vederle delle ali, che nascono d’improvviso spontanee ed è una visione assurda, lo sa, è solo l’illusione di tutte quelle piume e della sua fantasia che galoppa veramente troppo in questi periodi – eppure quelle ali, anche se per un solo attimo, nere come la pece, le donano. Jane sa spiccare il volo.

Jun ha paura che lo faccia.

“Hei, gentiluomo,” lo richiama una voce alle sue spalle. Jun si gira di scatto, le spalle tese e lo sguardo affilato – come se avesse paura di averli esternati, quei pensieri, mentre era immerso nella sua quotidiana macchinazione sul rapporto che lega lui e Jane, aver dato voce a ciò che lo tormenta da tempo. Invece, dal viso sorridente di Luke, sembrerebbe che anche stavolta l’abbia scampata. Non dice niente, spera solo di avere un’espressione interrogativa che sia sufficiente a far dimenticare all’amico la reazione che ha appena avuto.

E sembra funzionare. Luke gli si avvicina semplicemente, tirando fuori da dietro la schiena una piccola piuma nera dai riflessi colorati, e appuntandogliela meticolosamente all’occhiello. Jun è confuso.

“I dettagli sono importanti, no?”, gli dice, e poi sparisce.

Jun si chiede se anche sulla sua schiena Jane abbia visto delle ali, la libertà che non gli è mai stata permessa.

Se anche lui, un giorno o l’altro, sarà in grado di volare.

donnievt: (Default)
Originale [p.u.l.s.e. - june], scritta per il cowt11 sotto il prompt "speranza".
Rating: safe.
Warnings: /


------



È la seconda sera che stanno seduti attorno ad un fuoco flebile, le tende già montate dietro di loro, lattine di cibo precotto che vengono passate di mano in mano con riverenza sacra.

Sembrerebbe quasi che stiano facendo un picnic in mezzo alla natura se solo non si trovassero in uno dei territori più radioattivi del globo, se Jun non sentisse ancora un forte dolore al naso, se Maddie non avesse gli occhi umidi di pianto, e se il pensiero di aver lasciato Xaver e Ruben in città non rendesse i sospiri di tutti ancora più tremanti, incerti. Sono stanchi, sì – hanno percorso chissà quanti chilometri da quando hanno imbastito una frettolosa fuga dalle mura, prima di quanto sarebbe stato necessario secondo i piani, e da quando hanno seminato, non con poca difficoltà, le guardie che si sono avventurate per inseguirli, abbandonandoli al loro destino di morte certa poco dopo.

Le gambe cedono spesso mentre camminano, i respiri affrettati, e la luce che hanno visto il primo giorno da quella collina – quella che li ha accecati, che li ha fatti stringere nel nome di una speranza vana e lontana, il calore delle loro promesse vivo e presente nei loro abbracci disperati – adesso non illumina più i loro volti, che invece sono coperti dall’ombra delle frasche della fitta foresta. Ma la stanchezza che aggredisce tutto il gruppo trascende quella fisica, e avvolge senza pietà i loro corpi, penetra nelle ossa, è ossessiva in ogni loro pensiero. È la stanchezza di chi è solo, contro il mondo, senza uno straccio di conforto nello sguardo, la testa bassa, i passi pesanti tra le foglie. Se non ci fosse Pasha, coi suoi sensi felini, chissà quante volte si sarebbero già persi.

Il modo in cui i loro piedi si abbattono sul terreno, incessantemente, un rumore sordo che li accompagna ad un inevitabile patibolo, fa sussultare Jun ogni volta. E non crede di essere mai stato così miserabile, il naso sanguinante, storto appena e totalmente inutilizzabile, il viso sporco, le zanne che gli scavano le guance ogni volta che stringe i denti per il dolore, per l’impotenza che sente come una sciabola tra capo e collo.

Eppure ancora respira. Deglutisce. Non osa parlare.

È la seconda sera che si riuniscono attorno alle piccole fiamme che sono riusciti ad accendere, per tentare di scaldare il gelo che li attanaglia da qualche mese a questa parte. Ma non funziona.

È Shu-Li la prima a parlare, scuotendo tutti dal torpore della paura.

“Se… Se mai riuscissimo a- no, quando riusciremo a uscire fuori da questa situazione, salvare tutti. Tornare a casa. Cosa vorreste fare?”.

La sua voce è poco più di un sussurro, ma basta per spezzare il silenzio. Tutti la guardano stupiti per un attimo, consci che questo non è il suo comportamento usuale – Shu-Li è timida, silenziosa, tenta di spiccare il meno possibile in qualsiasi situazione. Forse è un risultante del suo potere, della sua vista così acuta che le permette di poter stare in disparte ad osservare, senza mai mancare un dettaglio pur non prendendo parte alla discussione. Eppure, se in questo momento ha deciso di frantumare l’incantesimo che l’ha tenuta sana per tutto questo tempo, allora forse il peso della loro malinconia comincia davvero ad essere esasperante, futile nel condurli fuori da quella trappola ma forte, troppo, nel tenerli stretti in rovi pungenti, che graffiano la carne ad ogni movimento, ad ogni accenno di speranza. Shu-Li si rifiuta di farsi piegare, di torcersi in questa stretta soffocante, ed è forse la più coraggiosa tra tutti, adesso, nel buio della notte.

“Comincio io. Appena torno a casa, vorrei poter comprare una macchina fotografica, una di quelle professionali, con un obiettivo potente, e scattare foto da molto lontano per mostrare quanto in là riesco a vedere. So che è una stupidaggine, ma mi piacerebbe provarci,” si interrompe giusto per un attimo, per alzare il viso in un moto di coraggio, raddrizzarsi con una fermezza che non le appartiene.

“Ho qualcosa.. ho qualcosa da dare al mondo che gli altri non hanno.”

Lo mormora, come se fosse un segreto che ha custodito per molto tempo e fa fatica ad esprimere, a spolverarlo dalla rassegnazione, dalla convinzione che sia solo una fantasia, una stupida utopia e non sarà mai in grado di realizzarla, nonostante sia un sogno semplice, un granello così piccolo rispetto a quello che stanno facendo ora- è la possibilità di immortalare il paesaggio, godersi lo scenario di una vita tranquilla, contro il dover salvare milioni di persone, nel poco tempo che è loro concesso. Eppure è il modo in cui lo dice, stretta nelle spalle, il modo in cui alza lo sguardo per osservare tutti loro, una determinazione negli occhi sottili che li disorienta.

Quando riusciremo, ha detto. Tornare a casa.

Qualcosa da dare al mondo che gli altri non hanno.

Jun non sa se si riferisca alla loro mutazione, alle caratteristiche che li differenziano dalle persone normali – a ciò che li ha condannati a camminare in punta di piedi per una vita intera, ad aver paura delle proprie emozioni, ad imparare in ogni modo possibile a reprimersi, a frenarsi, con le buone o con le cattive; Jun non sa se si riferisca a questo, a ciò che li rende unici, che li ha portati ad essere riuniti da un giorno all’altro sotto il nome della Resistenza, o se si riferisca a qualcosa che trascende i loro geni, trascende il loro DNA.

Se stia parlando della loro anima. Dell’anima che Jun ha imparato a conoscere in questi anni, che ha tentato di coltivare nel migliore dei modi perché non appassisse sotto il peso di ciò che non è concesso loro provare, dire, essere. E Jun ha scoperto che è una forza prepotente, pronta a mordere, scalciare, e si riflette con una chiarezza disarmante nei loro movimenti quando si allenano, nei loro occhi attenti che scrutano le piantine prima delle ricognizioni, nelle loro voci ferme quando rispondono agli ordini. Nei loro pugni chiusi contro il petto, in un dolore muto e sordo.

A cui non hanno mai ceduto.

Jun è d’accordo. Che Shu-Li si riferisca ad una o all’altra, ha ragione: hanno molto da dare al mondo. E lotteranno per poterlo mostrare.

Anche gli altri cominciano ad annuire, si guardano nel viso, Enoch batte una mano sulla spalla di Shu-Li, Maddie si asciuga le lacrime. Per la prima volta – dopo aver visto l’alba sorgere sulla collina, dopo aver assaporato una libertà futile, impossibile – si sorridono. E tornano a respirare: a farlo come se lo avessero dimenticato per le ore precedenti e adesso fossero nuovamente in grado, come se non fosse più scontato, come se vivere e avere la possibilità di combattere fossero ancora, di nuovo, privilegi che non sono mai stati pronti ad abbandonare. Per i quali non hanno mai smesso di bruciare.

“Io vorrei poter cucinare”, dice Enoch all’improvviso, il petto in fuori, rinvigorito dal cambio repentino di atmosfera tra loro, “ma non per voi, branca di ingrati, ma per uno chef vero. Vorrei lavorare in cucina e– ehi, Pasha! La mia zuppa l’hai mangiata però, e senza ridere!”, e mette su un finto broncio, le labbra protese comicamente all’infuori, fiero di aver allargato il sorriso sulla bocca di tutti col suo fare fragoroso. Jun è grato di avere compagni che sono in grado brillare in una notte così buia. Anche Ceci, che viene spronata dalla mano che Andrea le ha posato teneramente sul ginocchio, tira in fretta su col naso. Ha la voce rauca, di chi ha provato a trattenere le lacrime, ma i suoi occhi si accendono di una luce nuova mentre dice “Comprerò un cane. Adesso non me lo fanno tenere, posso solo accarezzare quello che c’è in casa dei Gyeongs quando lavoro. Ma ne voglio uno mio. Voglio insegnargli a sedersi, a darmi la zampa, voglio dormire insieme a lui.” Ha le guance rosse mentre lo confessa, e il calore che Jun sente al petto ha iniziato a bruciare di un desiderio lancinante. Ma è quando vede tutti scoppiare in una fragorosa risata – perché Olu lo ha appena paragonato all’animale domestico della Resistenza, scompigliandogli i capelli con un gesto che solitamente si dedica ai cuccioli - cosa te ne fai di un cane se abbiamo già Jun che ringhia? – che nella sua mente comincia a martellare un solo pensiero.

Sono le speranze che li hanno tenuti vivi fino ad adesso, a cui devono tutta la loro forza. Ho bisogno che non siano solo fantasie. Farò di tutto perché non rimangano solo fantasie. Ed è come benzina nella vampa.

Persino Boris parla, per allontanare gli spintoni amichevoli con cui Luke lo sta tormentando per indicargli che è arrivato il suo turno. Il suo tono è quasi imbarazzato, e cozza maledettamente con l’immagine della sua figura rude e spigolosa. “Voglio avere una famiglia.”, balbetta, e poi riprende, quando sente gli sguardi increduli degli altri addosso, “voglio un figlio a cui poter insegnare cos’è giusto e cos’è sbagliato. Così che non faccia gli errori con cui ho dovuto convivere”. Le sue parole sono seguite da un silenzio cheto, ancora una volta.

Tutti lo osservano con riverenza, l’espressione di chi comprende in volto. Jun sa che Boris ha sferrato un colpo difficile da ignorare, un’immagine che nessuno di loro ha mai osato ammettere, che non si sono mai permessi di sognare, ma che rimane custodita come monito del perché stanno facendo quel che stanno facendo, perché stanno rischiando da anni – ed è una risposta così semplice, adesso: perché un giorno chi verrà dopo di loro possa essere capace di amare e odiare, senza paura del suono del chip. Perché possa essere persona, non bestia, non errore. Perché possa sperare esattamente come hanno sperato tutti loro, ma possa farlo in un mondo che non uccide con crudeltà, che non sbrana, ma che comprende.

Jun non ha mai pensato così tanto al futuro – non ad uno così lontano, almeno. Ha sempre cercato di essere un passo avanti a tutti, di circondarsi di notizie e strumenti che gli potessero permettere di guardare lì dove ancora nessuno era arrivato, la maggior parte delle volte con risultati notevoli. È solo adesso, però, mentre guarda i volti stanchi degli altri, che si sofferma a pensare al fatto che non saranno soli. Che ci sarà qualcosa dopo di loro, non finirà tutto unicamente sulle loro mani sporche.

Se riusciranno, potranno godersi la libertà per cui tanto hanno sofferto.

E se non riusciranno, allora forse ci sarà chi continuerà a battersi e a camminare sulle loro orme. La nascita di un nuovo futuro. È anche per quello, pensa, che gli altri hanno sempre dato il massimo: per la gioia di avere qualcuno da proteggere, a cui insegnare ciò che si è imparato con lacrime e sangue; per la gioia di vederli vincere in quel mondo che li ha tenuti in gabbia troppo a lungo. Per vederli volare, su ali che loro non hanno mai avuto, ma hanno imparato a costruire.

Per la prima volta dall’inizio di quella discussione, Jun si volta verso Jane. Non sa perché lo fa, è un riflesso istintivo, cercarla con gli occhi, osservare la sua espressione, tentare di intuire cosa stia pensando. Boris ha parlato di famiglia, sì, e Jun non ha mai considerato nessun altro famiglia se non suo padre, Imani e, per i pochi ricordi che ha, sua madre. A nessun altro ha mai permesso di attribuirsi quel nome. Anche con i membri della Resistenza, ha preferito fondare un rapporto che non ci somigliasse, che fosse totalmente diverso.

Dunque perché non riesce a distogliere lo sguardo da Jane? Lei non fa parte della sua famiglia di nascita, non come Imani che è ormai più di un fratello nonostante il sangue che scorra nelle loro vene sia di natura profondamente diversa. Perché, allora, il profilo delicato di Jane mentre tenta di rimbeccare il fuoco con un misero bastone, perché il modo in cui si muove, in cui sorride, in cui lo guarda- perché è tutto così familiare?

La risposta gli muore in gola mentre sta prendendo respiro. È un pensiero ingenuo e nuovo, uno di quelli che lo spaventa – no, lo terrorizza –, che non gli appartiene e mai gli apparterrà, ma che si fa strada nella sua mente, incontenibile, e per quanto Jun tenti di reprimerlo, per quanto sia bravo a mettere da parte ciò che non ritiene utile, non ritiene possibile – nonostante tutto, riaffiora violento davanti a suoi occhi, come se fosse reale, per qualche secondo: è l’immagine di un bambino, e ha i lineamenti fragili di Jane, i suoi stessi capelli biondi, il colore chiaro dei suoi occhi. Ma poi sorride, e per Jun è come guardarsi allo specchio: il modo in cui stende le labbra per mostrare tutti i denti, le fossette morbide che gli nascono ai lati della bocca, gli occhi sottili che si chiudono in una mezzaluna perfetta e che sono da sempre stati segno di una felicità troppo assente nel viso di Jun, ma che adesso si ripresentano con impeto ingenuo in quelle guance paffute, innocenti.

Jun lo capisce. Jane non è la sua origine, no, non può mai esserlo stata. Non è la famiglia in cui è nato e cresciuto.

Ma è la famiglia che può far nascere. La famiglia che Jun può creare. È il suo punto d’arrivo, forse.

Se non ha già rovinato tutto. Se non è troppo tardi.

Imani dà uno strattone alla sua spalla, riportandolo bruscamente all’interno di quel cerchio di persone che ora hanno lo sguardo fisso su di lui, in attesa. I tratti dei loro visi, nota, sono più rilassati, hanno recuperato il colore originario. Ed è un buon segno.

“E cosa vorrebbe fare il nostro leader appena avremo vinto?”

Si accorge di aver mancato un paio di altri desideri, immerso nei pensieri, e che ora stanno aspettando tutti che sia lui ad esprimersi. Persino Jane lo sta guardando con aria sollevata, le mani unite sul grembo. Forse questa è l’unica occasione che ha per poter mettere le cose a posto. Per scusarsi di aver trattato ciò che più era importante per lui come se non lo fosse.

È un comportamento che gli si addice, in fondo, che ha perpetrato per tutta la sua vita – allontanarsi da ciò che non era essenziale, rimanere concentrato sulla missione, evitare distrazioni che si manifestano in molte forme. E la più letale è, senza dubbio, quella dei sentimenti.

Tutti i Controlled, in fondo, sono stati educati a rigettare le loro emozioni, a placarle a forza, sin da bambini. Era il prezzo da pagare per poter semplicemente vivere – annullarsi di quel che li rende unici, nel corpo e nella psiche. Eppure Jun crede di aver avuto sempre una predisposizione per questo: da quando non ha più visto sua madre, da quando suo padre è diventato il fantasma dell’uomo premuroso con cui è cresciuto per cinque anni, da quando ha imparato cosa significa essere diverso, essere bestiale – da quella volta ha tentato in ogni modo di dissolvere ciò che sentiva. Ed è stato facile, in un primo momento. Era per proteggersi, per sopravvivere, e non aveva, in ogni caso, bisogno di sentire alcunché se le sue giornate passavano in casa, ad ascoltare il tornio di suo padre vibrare, senza alcuna interazione con nessuno a parte le pagine dei libri che gli aveva lasciato sua madre. Era come essere vuoti: se avesse voluto urlare, dire al mondo del proprio dolore, al tempo, nessun suono sarebbe uscito mai dalla sua bocca. Lo sa.

E poi era arrivato Imani, e con lui Ismal. E con loro una valanga di speranze, di eccitazione. Una missione. Per lui.

Da allora era stato difficile ricominciare a far finta di nulla, perché tutto ciò che riusciva a sentire era improvvisamente moltiplicato: il dolore della perdita di Ismal, troppo crudele per quello che era solo un bambino con un dono straordinario; l’impotenza che lo aveva attanagliato finché non aveva deciso di realizzare concretamente quello che con Imani stavano progettando da mesi; la rabbia dell’essere costretto a nascondersi, a reclutare in silenzio, a guardarsi sempre le spalle; l’indolenza del sentirsi da solo contro un mondo ingiusto che li divora dall’interno; e la felicità, dirompente, esplosiva nel suo petto martoriato, di aver trovato persone che si fidano ciecamente delle sue abilità, che sarebbero state disposte a seguirlo dovunque, la soddisfazione di avere una seconda famiglia, questa volta scelta e unica, sui cui poter contare. E infine l’amarezza di un destino che è difficile da manipolare, da distruggere per poter essere ricomposto nuovamente; di un destino che giorno dopo giorno minaccia di lasciarli a morire sul terreno sporco, gli occhi vitrei, nessun sorriso sulle labbra.

Ha imparato di nuovo a gridare.

È per questo che ha tentato in tutti i modi di seguire ciò che fosse giusto, non ciò che sentisse – ciò che avesse senso, non ciò a cui sperava di poter dare un senso. La sua morale così rigida non gli ha permesso di perdonarsi nemmeno un minimo sbaglio, non la più piccola disattenzione. Ed ha funzionato: è stato guidato da un ruolo che si è imposto da solo, con l’inesperienza tipica di chi vuole salvare il mondo ma non sa da dove iniziare, e ha sacrificato la possibilità di una vita in gabbia seppur tranquilla – ma ce l’ha fatta: adesso la Resistenza è viva e pulsante e pronta a mordere e graffiare, e il loro legame è eterno e indissolubile. E, in ogni caso, non vorrebbe essere nient’altro rispetto a ciò che è diventato: il loro leader. È questo il suo titolo. Questa la sua missione.

Eppure, nonostante il suo controllo ferreo, non è mai riuscito a padroneggiarsi a pieno. Il terrore di perdere qualcuno del gruppo lo ha portato a scegliere più volte una diversa opzione piuttosto che quella più logica, ha pensato a loro e non alla missione, per il desiderio imperante di non abbandonare nessuno, di avere le mani quanto meno sporche possibile del sangue dei suoi compagni. Se questo sarà lo sbaglio che li porta a morire, che così sia allora – Jun non è capace di pentirsi per questo.

E poi c’è Jane. Che, inevitabilmente, è il punto più debole della sua intera vita.

E Jun ha provato in tutti i modi ad evitare che lo fosse, a distruggere i pensieri che gli si annidavano alla base della nuca per ogni sguardo che lei gli rivolgeva, a cancellare i battiti veloci del suo cuore, a dimenticare tutto il bene che lei gli ha fatto, alle sue mani che lo curano, alla sincerità del suo corpo ogni volta che lo cercava, tra la folla, solo per il piacere di potergli stare vicino, di far sfiorare le loro spalle, di rivendicare il fatto che si fossero trovati, in un mondo che non permette nemmeno di trovare sé stessi.

Jun ha provato, ed ha fallito. Il filo che li lega è solido, e trascende i loro geni, trascende le loro mutazioni. Appartiene a quell’anima che tanto li distingue.

E mai una cosa lo ha spaventato più che comprendere che, sì, irrimediabilmente, per amore di un sentimento che nemmeno lui è certo di voler provare, avrebbe fatto di tutto per Jane.

Ha giocato con lei, come un bambino col suo giocattolo prediletto, ma più spingeva per avere spazio tra loro, perché lei non si accorgesse del modo in cui le sue gambe tremavano quando sussurrava il suo nome, più, assurdamente, si ritrovava aggrovigliato nella sua tenerezza, nel suo profumo di casa, nell’ingenuità delle sue convinzioni. E ha pensato di non poterla sopportare, quella vicinanza. Non poter sopportare il pensiero che, forse, un giorno o l’altro, l’avrebbe persa. E non sarebbe stato più in grado di rimettersi in piedi, quando la Resistenza non aspetta altro che le sue parole risolute a guidarli. Non avrebbe potuto permetterselo.

Ma adesso, che le mura sono lontane e il suo chip non trilla più da tempo, adesso che ha veramente avuto l’occasione di perderla e, per evitarlo, ha barattato ciò che lo rende unico tra i Controlled – adesso che sembra tutto così sfuocato, eppure così concreto, adesso, pensa, la sua missione può sopportare una deviazione. Se Jane glielo permette.

“Allora? Devi pensarci ancora tanto?”. La voce di Imani riecheggia tenue nelle sue orecchie, e Jun alza finalmente lo sguardo dalle mani che ha continuato a tormentare per tutto il tempo.

“Vorrei ballare”, dice.

E, per un momento, solo per un momento, cerca gli occhi di Jane. E quando li incontra capisce che è anche il suo, di desiderio. Che le notti che hanno passato a danzare goffamente nel magazzino vuoto, ubriachi di stanchezza e dell’odore caldo dell’altro, stretti e felici come se non fossero che persone normali, a godere della loro libertà, in un modo che è comprensibile solo a loro, nel mondo che stanno costruendo passo dopo passo, sussurrando segreti nel buio e stringendosi fianchi e mani così forte da fare quasi male, con la delicatezza delle loro labbra che si inarcano scomposte sui loro visi incerti – ecco, quelle notti non sono mai state uno sbaglio. E Jun vorrebbe maledirsi per aver pensato che lo fossero.

Non dice nient’altro. Lascia che sia il tremore fievole delle sue mani a parlare per lui, nelle orecchie il ronzio fastidioso del suo cuore che batte, cosciente, mentre Jane lo guarda, e Jun si sente bruciare sotto quegli occhi di cristallo.

Non la lascerà andare. Non questa volta.

Finiscono a ridere, tutti insieme, quando l’oscurità si è fatta ancora più fitta – e sembra non sfiorarli nemmeno, perché la flebile luce che è riaffiorata nei loro occhi è abbastanza per proteggerli da una paura di cui sono stati schiavi per molto tempo, che li ha tenuti incatenati e senza fiato, ma che, almeno per questa notte, ha smesso di tormentarli. Si scambiano parole di conforto, si stringono le mani con una tenerezza che non hanno mai avuto tra loro – sono vulnerabili, sì, ma è una vulnerabilità che hanno imparato a condividere nuovamente con gli altri, e questo, in un modo perverso, assurdo forse, li rafforza. E non esistono più graffi sulla pelle, né ferite invisibili: da oggi esistono solo loro, e la loro forza nel credere ancora una volta in questa missione impossibile che, adesso, impossibile non pare più.

Quando ormai le loro voci sono poco più che un sussurro rassicurante, e le frasi vengono sbiascicate a fatica per il troppo sonno, decidono di dividersi per dormire, anche se i loro corpi sembrano essere più leggeri che mai. Jun si avvia verso la piccola tenda, dopo aver salutato Imani con un sorriso flebile, ed è con sorpresa che vede la figura di Jane ad aspettarlo lì davanti, lo sguardo rivolto verso il terreno ma che si solleva immediatamente non appena percepisce la propria presenza. Ha le braccia incrociate sul petto, come se fosse stizzita – e ne avrebbe tutte le ragioni, pensa, perché forse l’ha infastidita con quella confessione prima, perché forse è stato inopportuno, è stato stupido da parte sua pensare che quella semplice frase potesse recuperare tutti i mesi che hanno passato senza nemmeno guardarsi negli occhi, troppo distanti per un motivo di cui lui, e solo lui, è l’artefice assoluto, è un pensiero ingenuo quello di potersi scusare in questa maniera così silenziosa, senza nemmeno farlo a dovere, sperando che Jane capisca, eppure è l’unica cosa che è riuscito a dire, è stato sincero per la prima volta in chissà quanto tempo, ma no Jun, non basta l’onestà, ed è difficile riprendersi adesso qualcosa per cui non ha combattuto prima, forse è davvero troppo tardi, forse davvero meriterebbe di essere lasciato solo, nell’ironia di aver cercato di inseguire ciò che precedentemente ha lasciato sfuggire con così tanta leggerezza, nell’ironia di trovarsi, sempre, nel momento sbagliato per provare quel che sta provando – ma, assurdamente, la maniera con cui lei gli si avvicina appena, con una familiarità disarmante, come gli stringe le dita attorno al polso per non farlo scappare, è tutto fuorché aggressiva. E anche questa volta Jun sente di non meritare, per nessuna ragione al mondo, la gentilezza con cui Jane lo tratta, la velocità con cui è pronta a perdonarlo nonostante le labbra strette e lo sguardo basso.

“Jane?” sussurra, perché se alzasse la voce, forse, la speranza che si è annidata nel suo cuore, piccola e debole, potrebbe spezzarsi, e non è quel che vuole. L’ha capito troppo tardi, sì, ma è una consapevolezza che non è pronto a lasciarsi scappare, non ora.

“Seguimi e basta.”

E Jun ubbidisce, come il cane che è. Jane lo guida in silenzio, tra le frasche, in un sentiero che sembra conoscere perché i suoi passi sono svelti e decisi, calpestano le erbacce nei punti giusti e lui si chiede quando abbia trovato il tempo per prendere così tanta dimestichezza nei dintorni, e soprattutto dove lo stia portando. È pur sempre notte fonda, e Jun tenta di essere quanto più attento possibile – non hanno trovato nessun pericolo nei giorni precedenti, ma fidarsi ciecamente di questa informazione è un rischio e non hanno bisogno di questo, al momento, non quando non hanno nessuna idea di cosa possa trovarsi al di fuori delle mura – ma l’unica cosa che riesce a fare, nel tentativo di utilizzare il proprio senso migliore, è inspirare un lieve odore metallico, che non lo ha ancora abbandonato nonostante le cure frettolose che gli hanno dedicato tutti gli altri. E si sente frustrato – il suo olfatto è tutto ciò che lo rende Beast, oltre alle sue zanne, ed esserne privato è una sensazione alla quale non si è abituato e non si abituerà mai, come si è invece abituato all’idea di essere un peso per la squadra, adesso che il suo senso più sviluppato è totalmente inutile e non può più proteggerli.

Stanno risalendo una collina per arrivare ad un piccolo spiazzo, una sorta di alcova circondata da alberi che non hanno chiome così fitte che si chiudono tra loro, ma lasciano intravedere il cielo. Per un attimo Jun si mette all’erta, perché quel posto non sembra affatto naturale, è troppo perfetto per esserlo, forse c’è davvero vita fuori dalle mura e quello è stato l’accampamento di qualcuno, devono stare attenti, non possono abbassare la guardia e cadere nelle trappole di qualunque creatura viva in queste lande desolate, devono–

“Jane, che ci facciamo qua? È pericoloso, non dovremmo-”

Lei fa roteare gli occhi in segno di impazienza, come se si aspettasse la sua reazione, e sbuffa appena.

“Guarda e basta, Jun.”

Le sue dita sciolgono la stretta che fino ad allora hanno avuto sul polso di Jun. Indicano in alto.

L’unica luce che illumina le loro sagome è quella della luna, tonda e brillante, e, sorprendentemente, è sufficiente perché i loro occhi riescano a distinguere con chiarezza inaspettata ciò che li circonda: non sarebbe mai stato possibile, a New Prague, con la schiera di palazzi altissimi che oscurano il cielo e le mille insegne brillanti e colorate dei locali in cui loro non hanno nemmeno il permesso di entrare. È mozzafiato, l’immagine della volta celeste puntellata di mille piccole stelle, immensa sopra le loro teste: a Jun ricorda l’illustrazione di un libro che sua madre gli ha lasciato, prima di andare via, e che lui ha stretto al petto per così tante notti, sperando che la luce degli astri che erano lì dipinti potesse entrare nel suo piccolo corpicino da bestia abbandonata, per consolarlo e distrarlo – che idea stupida, per un bambino che ha imparato da subito che nessuno sarebbe arrivato a salvarlo, che essere l’errore in una società crudele e senza scrupoli era il destino che gli era stato assegnato, e che condivideva con chissà quante altre persone in quella città.

E adesso, quello stesso cielo è così vivido e lucente davanti ai suoi occhi – e forse nella sua vita è stato troppo impegnato ad occuparsi dei suoi compagni, a far sì che le loro strategie avessero un senso e fossero tutti in grado di stare al passo, forse è stato troppo occupato a guardare verso il basso, come gli hanno sempre insegnato, perché quello spettacolo stupefacente non l’ha mai visto. Ma ora lo accoglie con l’intensità dei suoi colori, e Jun si stupisce di sapere che non ha paura. Non è la solitudine lacerante di quando era bambino, quella che lo divorava per intero lasciandolo livido e stanco sul letto, no. È una sensazione nuova, essere entrambi circondati dal silenzio, solo lui e Jane, coi nasi puntati verso le stelle, con la consapevolezza di essere nient’altro che creature infime all’interno di un universo così vasto – ma creature che stanno lottando per quella loro piccolezza, che per loro vale tanto quanto quel cielo brillante. E questo pensiero lo riempie, Jun sente le spalle rilassarsi, il sorriso crepitare leggermente sulle sue labbra secche.

Appena cerca con lo sguardo Jane – perché non ha altro desiderio che vedere quello stesso sorriso affacciarsi sul suo viso determinato, vederla invasa da tutto quello splendore che le si riflette teneramente sui lineamenti – la trova accucciata poco più avanti, a smanettare con quella che Jun riconosce essere la radiolina con la quale ascoltavano le notizie del Governo, quando erano nascosti alla Resistenza – e le musiche, di notte, quando tutti erano nelle stanze a dormire, e loro due facevano finta di ballare, di essere bravi a farlo, ed era il loro modo di sfuggire al dolore che li dominava di giorno, cercarsi nel buio per ridacchiare piano, e farsi cullare dalla stanchezza e dal calore dei loro abbracci.

Dopo qualche istante in cui non si riesce a sentire altro che statico, un fastidioso ronzio che si interrompe per poco ad ogni cambio di stazione, Jane trova ciò che stava cercando. Le si illumina il volto, e una melodia leggera, appena udibile grazie all’assenza completa di rumori che non siano i loro passi, comincia a farsi strada nelle orecchie di entrambi. Jun non distingue se si tratta solo di una traccia strumentale, o se ci siano anche parole – e, se ci sono, sembrano incomprensibili, non importa quanto s’impegni a riconoscerle.

“È una delle poche che funziona anche fuori dalle mura. Me ne sono accorta il primo giorno”, dice lei, avvicinandosi piano. Quando gli si trova davanti, in un gesto naturale, gli prende la mano e se la poggia sul fianco, allacciandogli subito dopo le braccia dietro la nuca, come se non fossero passati mesi dall’ultima volta che si sono ritrovati in quella posizione. Jun la guarda confuso – no, non confuso: è meravigliato. Quella scena sembra così surreale, dopo tutto quello che hanno passato nei giorni precedenti. Dopo tutto quello che le ha fatto passare. Esita.

“Io- pensavo non mi avessi sentito, prima, attorno al fuoco. Pensavo non fosse il caso-”

Ancora una volta, è lei ad interromperlo, stringendolo con delicatezza, lo sguardo che ben sostiene il proprio.

“Smettila di parlare per una buona volta, Jun.”

È cresciuta, Jane, ed è diventata forte. E si scontra così prepotentemente con la debolezza che Jun ha appena scoperto dentro di sé, di cui è stato sempre cosciente ma che ha tentato di occultare finemente nell’unico modo che conosceva. Ed è quasi comico il modo in cui riescano a completarsi anche adesso, che sono cambiati profondamente dalla prima volta in cui si sono incontrati, in quel vicolo nascosto, anni fa. Jane ha gli occhi pieni del coraggio che tanto distingueva Jun, e che adesso sembra mancargli.

L’unica cosa che Jun può sperare, allora, è di possedere anche solo un minimo della dolcezza di Jane. Dell’abnegazione con cui si è presa cura di tutti, meno che di se stessa; con cui lo ha amato senza pretendere nulla in cambio, sorridendo dei piccoli tocchi, delle parole che si lasciava sfuggire, della sua sola presenza vicino a lei. Con cui, adesso, si staglia tenace davanti a lui, la chioma bionda legata distrattamente in una coda disordinata, il viso appena sporco. La migliore versione di sé. Vera. Jun la trova bellissima.

Alla luna, stasera, serve l’onestà.

Le abbraccia i fianchi, le mani che si posano leggere sul piccolo incavo che Jane ha nella parte bassa della schiena, così come era abituato a fare. Il modo in cui si sfiorano non è impacciato né timido: hanno bisogno entrambi di questo più di quanto abbiano piacere ad ammettere, lo hanno desiderato in maniera così dolorosamente evidente, che Jun riconosce la brama sotto le dita di Jane mentre gli accarezza la nuca con il pollice, distrattamente – ed è la stessa brama con cui Jun avvicina il naso ai suoi capelli, gli occhi socchiusi, come se potesse nuovamente sentire l’odore che lo inebriava nelle notti in cui si perdevano l’uno nell’altro, mesi fa.

E, semplicemente, ballano.

Jun riscopre di non aver mai abbandonato quel mondo che condivide solo con Jane, e che si manifesta nei loro passi incerti e nel modo in cui seguono il ritmo morbido della canzone che stanno ascoltando, i loro tocchi leggeri sulla pelle dell’altro.

È un mondo in cui Jun può desiderare. E può sperare di essere desiderato.

Per quella notte soltanto, Jun sa che lo farà. Continuerà a sperare per lei.



Page generated Jul. 2nd, 2025 02:12 pm
Powered by Dreamwidth Studios