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Originale [galaxy burgerz], scritta per il cowt11 sotto il prompt "transizione"
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C’è stato un periodo, nella sua vita, in cui la somiglianza con sua sorella era fin troppo lampante. Le stesse piccole efelidi blu sul naso azzurro, le zanne che crescono alla stessa velocità – quelle di Djadi già scheggiate per tutte le volte che le ha affondate sui noccioli della frutta, nella foga della fame –, i capelli lunghi fino alle spalle e acconciati in miliardi di codine diverse. A volte anche la nonna aveva difficoltà a distinguerli, finché non osservava per bene i sorrisi e allora diventava chiaro chi fosse Djadi e chi fosse Dval – perché sua sorella l’ha sempre avuto più brillante, il sorriso, pronto a spuntare alla minima occasione, dipingersi sulla sua piccola bocca, per rallegrare, per confortare, semplicemente per la felicità intrinseca che c’è nello stirare le labbra e apprezzare il mondo.

È sempre stata così, fin da quando erano piccoli.

Irrequieta. Testarda. Onde che s’infrangono prepotenti sul granito, levigandolo. Folate di vento che fanno fremere e tremare ogni cosa. Djadi ha la stessa forza, la stessa tenacia affascinante del fuoco che dipinge di rosso il cielo della loro città natale, che divampa accanto alle stelle e plasma l’intero pianeta come creta. Lo stesso fuoco che veneri, che guardi con il rispetto che solo qualcosa di così splendente e letale può portare, sapendo quanto sei fortunato nel poterlo ammirare ed essere ancora vivoperché non potrebbe mai farti del male, arde così intensamente da colmarti di un calore familiare e insopportabile, e ti fidi, ti trovi a tendere la mano verso l’orizzonte in fiamme.

È così che la guarda Dval, che invece di tutto questo splendore non ha mai posseduto nulla.

Dval è sempre stato silenzioso. Seduto con le ginocchia al petto a guardare sua sorella, un sorriso flebile sul viso unicamente perché lei è là, e la sua presenza lo rassicura in una maniera che nemmeno lui riesce a spiegarsi – come se il disagio che prova si assottigliasse almeno un po’ quando lei è nei paraggi e lui ha la possibilità di poggiare lo sguardo sulla sua figura snella e raggiante. Un conforto immediato che ricerca come l’aria negli ultimi tempi, spaventato di soffocare.

Non che Dval sia triste – è veramente troppo giovane per potersi lamentare di alcunché, e per di più oggi le mamme gli hanno chiesto di aiutarle a mettere a posto l’intelligenza del piano delle luci in cucina, che ultimamente si accendono e spengono senza criterio e sono costate a papà l’ultima infornata di biscotti, salatissimi perché il sale e lo zucchero sono vicini sullo scaffale e sapete che non vedo affatto al buio. E Dval è bravo in questo, macchinare con cavi e circuiti è la sua specialità, sa di poterlo fare in un batter d’occhio per poi crogiolarsi nei complimenti su quanto sia sveglio e attento e diligente. No, oggi è un bel giorno.

Ma sono mesi, forse anni, che questo peso nel petto non vuole svanire nonostante abbia tentato in tutti i modi di allontanarlo – e i tentativi includono l’aver costruito un piccolo Somphoth, perfettamente funzionante, compreso di sei occhi meccanici e lunghe ali ai lati della testa, mettendo insieme i pezzi che ha trovato alla discarica degli automi; o l’essersi abbuffato di hamburger di Cuqox finché non ha sentito la bocca andare a fuoco, la piccantezza della carne troppo esuberante per le sue papille gustative.

Quella di adesso è solo la sua ennesima occasione per tentare di stare bene, perché ha sempre funzionato e magari anche questa volta lo farà: trascorrere un pomeriggio con Djadi sperando che la sua allegria possa distrarlo, correndo lungo il fiume rosso e aspettando che il tramonto infiammi il cielo, distesi sulla riva, i nasi rivolti all’insù e le mani intrecciate. Come quando erano solo dei cuccioli.

Eppure, nonostante tutte le smorfie scherzose che si susseguono sul viso di Djadi, nonostante gli insetti che tenta di scacciare con movimenti goffi ed esasperati, Dval non riesce a respirare. Neanche con l’allegria di Djadi il mondo sembra cambiare colore: è tutto di un asfissiante grigio, paesaggi che si ripetono insistentemente e Dval non riesce a riconoscere nulla, non riesce nemmeno a riconoscere sé stesso in mezzo a questa monotonia – ha la sensazione come se qualcosa gli stesse sfuggendo dalle mani, come se stesse scappando via dalle sue dita in maniera così evidente ma lui non sa cosa sia, non sa cosa fare, non sa cosa essere, non sa come stringerla al cuore per non farla scappare, annaspa nel tentativo, ma è una lotta così insulsa e Dval si sente semplicemente scivolare via.

E Djadi è sempre stata la sua altra metà, lo specchio che riflette le sue paure e le sue gioie più grandi, è stata il suo coraggio quando lo ha aiutato a stringere le fasce al petto, quando ha provato insieme a lui milioni di maglie finché Dval non ha trovato quella che odiasse di meno vedersi addosso. È la sua casa. Lo è stata da sempre. Ma questa volta quel balsamo profumato che è la sua presenza non funziona, la sua risata non lenisce, il suo sguardo attento non ammorbidisce quel dolore che continua a martellargli in tutto il corpo, intorpidito e vuoto. Dval sente il panico montargli nelle ossa.

“Djadi”, sputa fuori, il respiro affrettato, e sua sorella si volta a guardarlo in silenzio, “tagliami i capelli.”

Djadi non dice nulla, lo osserva e basta, ma i suoi occhi sono grandi e dolci e parlano con parole che non potrebbero mai essere dette. Sembra averlo capito senza che Dval abbia avuto la necessità di raccontarsi, ed è un bene, perché non saprebbe veramente come spiegarlo, questo disagio che gli si nasconde sottopelle e lo paralizza quando si trova davanti al proprio riflesso nei vetri di casa.

“Li voglio corti. Da un po’. Non sopporto le trecce, non voglio continuare a farli acconciare ogni mattina. È uno spreco di tempo, e non mi piacciono, non stanno bene come su di te, sono diverse su di te, sono diverso–” e finalmente Djadi lo interrompe, quel nugolo di scuse a cui nessuno dei due crede veramente.

“Okay”, gli dice, e Dval vede il sorriso più bello dell’universo fiorirle sulle labbra. È un attimo, e Djadi ha già le mani nella sua chioma, dita esperte che sciolgono piano le trecce, un nodo alla volta, e Dval sente di non poter provare gratitudine più grande di questa.

Si perdono il tramonto, alla fine, troppo impegnati a far sì che il piccolo coltellino che Djadi porta sempre con sé non gli tagli accidentalmente un orecchio, e quando lei sbuffa, mettendosi le mani sui fianchi, c’è già un piccolo mucchio di capelli rosa al suo fianco, che minacciano di sparpagliarsi sul prato ad ogni folata di vento.

“Ecco”, la voce di Djadi ha una nota soddisfatta mentre si allontana per ammirarlo, “ho finito. Perché non ti guardi?”

Dval vorrebbe dirle che ha evitato la sua immagine riflessa per chissà quanto tempo, e che il terrore di guardarsi adesso e odiare quel che vede lo attanaglia e gli fa mancare il fiato, non per paura di un taglio sciatto, ma per paura di non riconoscersi nemmeno così, nemmeno dopo tutto questo lavoro, tutto questo coraggio. Ma non lo fa. Invece, si sporge sulla riva del fiume, per tentare di scorgere la propria figura nel rosso delle acque.

Quasi perde l’equilibrio.

La sua zazzera rosa adesso ha ciocche che si innalzano disordinate da parti completamente diverse, una frangia irregolare che gli cade delicatamente sulle sopracciglia, ed è gonfia, sembra gli sia esploso un piccolo circuito tra i capelli, ma Dval non riesce a fare altro che sorridere, così esageratamente che le guance gli fanno male, gli occhi gli si riempiono di lacrime. Djadi ha addirittura raschiato il coltellino alla base della testa, per mimare una sorta di rasatura, e nonostante sia assolutamente asimmetrica, Dval la adora. Anche i suoi zigomi sembrano più pieni, senza ciuffi di capelli che li accarezzano lascivi, e Dval allunga il collo per vederlo nudo, le spalle sottili senza nessuna coda o treccia a sostare.

Gli si affianca Djadi, in quel riflesso cremisi, e adesso, per la prima volta, sembrano differenti. Djadi sembra Djadi, con le lentiggini che si accendono di felicità nel vedersi vicini, il naso che si arriccia.

E Dval sembra Dval.

Finalmente.

“Djadi”, dice allora, di nuovo, la voce così flebile che potrebbe perdersi nel rumore del suo cuore che batte e urla, “non mi piace il mio nome”.

È un nome che non rispecchia la figura che sta continuando ad osservare, e manca poco, un solo passo e riuscirà di nuovo a respirare, lo sente e non vede l’ora di essere completo, di essere il ragazzo con la chioma sbarazzina che è appena nato e non morirà mai.

“Come vorresti che ti chiamassi?” Djadi non ha tentennato un solo minuto, e ha invece allungato la mano per stringere la sua, dita sottili che si intrecciano con forza.

Dval ci ha pensato tanto, ha provato ogni combinazione possibile, ha ascoltato il suono della sua lingua pronunciare ogni lettera milioni di volte, il modo in cui gli facevano increspare le labbra, i movimenti della sua bocca – ma non ha mai saputo decidere, non ha mai avuto il coraggio. In un modo o nell’altro, nessuno sembrava adattarsi all’immagine che si era abituato a vedere allo specchio, come se fosse fuori posto e non combaciasse nessun angolo, come se fosse solo un altro pezzo grigio che si aggiunge ad un quadro già incompleto di per sé. Ma adesso, con la spalla di sua sorella che sfiora la propria e il vento che gli accarezza la nuca scoperta, non ha nessun dubbio.

“Dval.”

E questa volta gli sembra il posto giusto. E’ di un bel colore. Lo fa stare bene.

Djadi si passa la lingua sulle labbra, prima di pronunciarlo. Dval, dice, e poi ancora, Dval, Dval, Dval, Dval, lo sussurra mille volte fino quasi ad urlarlo, e ogni volta sembra sempre più corretto, glielo cuce addosso con la stessa tenerezza che scorge nei suoi occhi, nelle braccia che lo avvolgono e lo stringono a lei, e Dval si sente finalmente a casa.

“Ti dona, sai? Mio Dval.”

È già sera, il fuoco del tramonto ha lasciato posto ad una notte scarlatta, cupa e tetra, ma la felicità che li unisce in quell’abbraccio silenzioso brilla come nessun’altra stella nell’universo, e Dval non sa se i singhiozzi sono per le lacrime che gli rigano le guance o per le risate che gli fremono nel petto, ma sa che quello è esattamente dove vorrebbe stare, per il resto della sua vita. Accanto a Djadi, che non ha mai smesso di sussurrare il suo nome, quello nuovo, e non ha mai smesso di dirgli che è stupendo, che è l’unica cosa di cui ha bisogno. Che lo ama.

E a Dval basta questo.

Questo piccolo pezzetto di universo che lo accoglie, in questo nuovo aspetto, in questa nuova parola che lo definisce meglio di quanto le altre abbiano mai fatto in tutta la sua vita.

Dval Dval Dval Dval Dval.

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