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BTS Fallen Angel AU [taejin], scritta per il cowt11 sotto il prompt "il paradiso senza di te non ha senso".
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Il sole fa lentamente capolino tra le sagome degli alti palazzi di Seoul, e i raggi che filtrano dalle tende socchiuse tingono appena la stanza di un ocra pallido, toni caldi che danzano silenziosamente sugli angoli della scrivania, su lenzuola sfatte e i cuscini sgualciti, illuminando quanto basta perché Jin possa accogliere tutto ciò che di nuovo i suoi occhi stanno osservando.

Jin è già sveglio da un po’, nonostante la stanchezza della notte precedente – più che evidente nei lividi che nota stargli sbocciando sui fianchi, nei segni di denti sulla punta delle dita, e nei marchi rossi sul collo che è sicuro sarebbe in grado di vedere se solo avesse la forza di alzarsi e guardarsi allo specchio. Ma c’è una certa pace, una calma insolita nel poter aprire gli occhi all’alba e respirare piano, crogiolarsi nel calore del corpo nudo accanto a sé, ancora immerso nel sonno, senza nessun rumore a disturbare eccetto il soffio leggero dei loro respiri.

È un balsamo che cura ferite che Jin non sa ancora di avere, dopo le sere che ha passato nella pioggia, irrequieto, il naso rivolto verso il cielo nella speranza di un segno, qualcosa che potesse ricordargli di non essere solo.

Non lo è più, adesso, e a rammentarglielo è Taehyung, addormentato sotto le coperte, che gli mostra la schiena scoperta, mentre le luci mattutine ballano tra i suoi ciuffi biondi e scarmigliati. E Jin, che ha sperimentato una varietà indecifrabile di emozioni negli ultimi giorni, una più intensa dell’altra fino ad esserne ingoiato completamente e non percepire più il battito del proprio cuore, ora sente nient’altro che una serenità improvvisa fiorirgli dentro al petto.

C’è qualcosa di etereo in quella visione, forse anche a causa della consapevolezza di ciò che Taehyung è – no, di ciò che è stato, della sua appartenenza originaria all’eliso, del sangue celeste che gli scorre sottopelle, del fatto che abbia potuto vivere migliaia di anni, e splendere di luce propria nelle sfere più alte del piano immateriale – per poi diventare, invece, carne e ossa, trasformarsi e perdere tutti i privilegi dell’eden, mutare in natura e scopo. E di questo, Jin ne è la ragione.

C’è ancora qualcosa, però, che tradisce la natura non umana di Taehyung, qualcosa che rimarrà impressa sulla sua pelle come un monito severo di ciò che ha fatto, il segno della sua superbia, forse, di come abbia rinunciato al paradiso per potergli rimanere al fianco: sono due grandi cicatrici, nere come pece e assolutamente simmetriche, che gli attraversano la schiena fino alle scapole. E anche se sono solo sporchi residui della magnificenza delle sue ali, infondono ugualmente a Jin una certa riverenza – perché è quello il prezzo che Taehyung ha pagato per lui, e Jin ancora non sa spiegarsi come Taehyung abbia mai potuto decidere di disfarsene, barattarle con la precarietà che la vita di Jin può offrire, una bellezza che non potrà mai essere così maestosa come quell’ammasso di piume bianche che l’ha accompagnato per millenni.

Jin tende la mano d’istinto, sfiora i lembi ruvidi delle ferite con dita tremanti – e quasi si aspetta che sanguinino, piccole lacrime di liquido rosso a bagnare le lenzuola, perché è come se fossero ancora fresche, la carne pulsante sotto i polpastrelli. Come se fossero destinate a non guarire mai e, magari, è davvero così. L’eden non perdona i traditori. E fa sì che nemmeno i loro corpi lo facciano.

E per un attimo, solo per un attimo, Jin si sente attraversare da una pressione inusuale, una che lo affossa nel materasso e lo paralizza, una scarica veloce che gli vibra per tutto il corpo: sente ogni nervo bruciare con un’intensità devastante, il calore raggiungergli il viso, le labbra strette per trattenere un sibilo di dolore che lo costringe a serrare gli occhi. E lì, nel buio delle sue palpebre socchiuse, come un’esplosione che lo acceca con il suo bagliore devastante, lo ricorda – è il sogno che l’ha tormentato qualche notte prima. Le stesse immagini si susseguono con nitidezza nella sua mente, come un filmato fatto scorrere a rallentatore, e Jin si sente improvvisamente mancare.

 

È una stanza assolutamente buia, eppure riesce a vedere chiaramente la figura che è lì in ginocchio, proprio al centro, come se splendesse di luce propria, tanto brillante da poter essere scorto nell’oscurità: è Taehyung, ed è raggomitolato su sé stesso, le mani strette a pugno sul petto nudo, la schiena arcuata che si rivolge al soffitto. Le sue ali sono proprio lì, enormi e ripiegate sui suoi fianchi, ma non hanno lo splendore latteo e angelico delle illustrazioni nei libri religiosi, no: sembrano scolorire, il loro chiarore sbiadire man mano verso un nero cupo, quasi funereo, e Jin immagina che sia quella la prima punizione che deve subire un traditore – vedersi privare del chiarore che l’ha sempre avvolto, come reminiscenza del suo compito di giudice divino, e sprofondare nell’oblio di una vita affatto immortale, piena unicamente di vizi e peccati, gli stessi di cui si sarebbe macchiato, e da cui ritornerebbe come loro vittima.

Ma è nel momento in cui quelle ali scure vengono strattonate con prepotenza da una forza invisibile, piume leggere che si accartocciano e cadono sul pavimento, che il cuore di Jin comincia a battere più forte fino ad assordargli le orecchie: non lo sente, l’urlo di Taehyung, ma non ha bisogno di farlo – a bastare è l’immagine del suo viso, contratto da un dolore insopportabile mentre entrambe le ali gli vengono strappate con un colpo secco, la schiena inarcata in una curva perfetta, ed è una tortura crudele, tutto quel sangue che si accumula alle sue ginocchia, le lacrime bollenti che gli scorrono sulle guance, il corpo scosso da spasmi disperati e atroci. Jin ha l’istinto di allungare la mano per raggiungerlo, perché quello spettacolo straziante possa finire con Taehyung tra le sue braccia, lontano dal giudizio di occhi ultraterreni.

 

Ma, nel sollevare le palpebre, si ritrova nuovamente nel suo letto, come all’inizio di quello stranissimo viaggio onirico – che Jin immagina essere frutto del legame che lui e Taehyung hanno sempre condiviso e che adesso si manifesta con più potenza, e lo porta a sperimentare le sue stesse emozioni. Questa, però, è l’unica che continua a riaffiorargli alla mente, in maniera ossessiva, come se fosse l’ultima – perché, da quel momento in poi, Taehyung è diventato umano, e il loro vincolo mortale, comunissimo.

Anche questa è una punizione, non per il traditore, ma per colui che l’ha portato a tradire: Jin sarà per sempre tormentato da queste visioni, perché l’espressione sofferente di Taehyung possa non abbandonarlo mai e Jin possa vivere col rimorso di averlo condannato a questa pena lancinante.

È davvero un peccato, allora, che Jin non senta alcun tipo di rimorso, nonostante questi ricordi – non quando c’è Taehyung che lo guarda da sopra la spalla, appena sveglio, i capelli sparpagliati sul cuscino e un sorriso sornione sulle labbra, ed è l’immagine più incantevole che Jin abbia mai visto. Lo rifarebbe, questo peccato, ancora e ancora, se questo gli consentisse di ammirarlo sotto le luci calde del mattino, con l’espressione riposata e soddisfatta – dalle ore di sonno, forse, o dal modo in cui si sono stretti la notte precedente. Non c’è posto per il rimorso quando Taehyung lo osserva con le fossette leggere che gli nascono ai lati della bocca e la voce appena impastata che lo chiama, Jinnie, primo pensiero al mattino.

“Mmh– cosa stavi facendo?” Taehyung si posiziona con la schiena che poggia sul materasso, ma non gli stacca gli occhi di dosso per un solo secondo, “avevi una faccia stupida.”

La pacca scherzosa di Jin gli arriva in pieno petto, e Taehyung ridacchia a vedergli sul viso un’espressione fintamente offesa, le labbra socchiuse, piene e rosa, protese in un piccolo broncio teatrale.

“Yah, Taehyungie! Ti sembra il modo di parlare? Potresti benissimo essere più piccolo di me!”

Ed è vero: a differenza di Jin, che dimostra di essere più giovane dei suoi ventiquattro anni ma ha ugualmente i tratti inconfondibili di un uomo, l’aspetto di Taehyung somiglia tremendamente a quello di un ragazzino, nonostante abbia probabilmente vissuto millenni – sono i lineamenti infantili del suo viso, il suo corpo esile e non molto muscoloso; ma soprattutto, pensa Jin, sono quegli occhi assurdamente azzurri, di un chiarore singolare, che lo ringiovaniscono e donano alle sue fattezze l’innocenza degli angeli – ma, allo stesso tempo, in quello sguardo affilato Jin percepisce qualcosa di più maturo, la saggezza di un essere celestiale che ha da sempre osservato le gesta umane dall’alto della sua conoscenza, e ha deciso di unirsi ad esse senza rimpianti, rinunciando al nome che ha portato sul petto per così tanto tempo.

L’hanno scelto insieme, infatti, Taehyung.

 

“Non importa, Jinnie, scegline semplicemente uno che ti piace”, e poi, “sarai tu che lo userai, voglio che sia tu a deciderlo. Così che possa essere più facile per te, chiamarmi.”
“Taehyung, allora.” e Jin non gli ha mai detto che quel nome lo ha sussurrato perché lo sente scorrergli sulla lingua da giorni, come se non fosse mai stato in grado di sputarlo se non esattamente in quell’istante, davanti a quella richiesta, come se non ne fosse mai stato cosciente pur sentendolo tra le dita.
“Va bene”, un sorriso grande che gli scopre tutti i denti. “È Taehyung.”
E, “ha qualche significato?”
‘Andrà tutto bene. I tuoi desideri si avvereranno.’
Jin non ha più nessun dubbio.

 

Jin sente Taehyung spostarsi lentamente tra le coperte, mettersi sul fianco ed avvicinarsi finché non ha il viso nascosto nell’incavo del proprio collo, braccia allungate per potersi stringere solo un altro po’. Il suo respiro gli solletica l’orecchio, e Jin lo percepisce anche senza vederlo, il sorriso giocoso di Taehyung che gli sfiora la pelle. È il suo modo di assaporare la mattina, pigramente, nel calore di un piccolo appartamento di Seoul, accanto alla persona con cui ha condiviso gemiti e carezze la sera prima – una delizia di cui non ha mai potuto godere in paradiso e che cerca di recuperare adesso, inspirando quanto più può quell’odore di casa che gli offre Jin.

“Anche oggi mi prepari la colazione?” domanda Taehyung, il naso che percorre la linea morbida del profilo di Jin fino alle sue labbra. È un gesto così familiare che sembra l’abbia fatto da sempre, e anche le loro bocche, nel momento in cui si trovano per un soffio leggero, si incastrano in maniera assoluta e perfetta, completa, come tutto il resto nell’incrocio dei loro corpi. Jin annuisce nel bacio, silenziosamente, per poi staccarsi appena.

“Non ti manca tutta l’ambrosia– o qualsiasi cosa bevevi lassù?”

Taehyung scoppia in una risata rumorosa, le labbra distese a mostrare i denti, e a Jin sembra di sentire una melodia delicata, candida, mirto e miele che si mischiano nella voce profonda di Taehyung – che gli freme nel petto e si riversa sulle labbra di Jin in un secondo bacio, e l’attimo dopo sono entrambi persi nel sussultare delle loro spalle, a ridacchiare come stupidi, finalmente liberi e insieme e incapaci di contenere tutta la gioia che gli scorre sulla pelle, che gli riempie i petti e trilla nei sorrisi che si scambiano, nelle loro mani che si cercano nell’intricato groviglio di lenzuola.

“Affatto,” gli risponde infine Taehyung, la linea morbida degli occhi che tende verso l’alto, segno di una felicità che gli trasforma i lineamenti soffici senza nessuna paura, “il paradiso è noioso. Nessuno cucina bene come te, non abbiamo un Famicom e non posso batterti su Mario Kart– che razza di vita è quella?”

E poi si affretta ad aggiungere, non appena vede la smorfia comicamente esasperata di Jin, gli occhi che si alzano verso il cielo in un’espressione di divertito disappunto – “Credimi, Jinnie”, il tono della sua voce è deciso, serio, il suo sguardo con un’intensità che lo àncora tra le coperte, “è molto più un paradiso questo, se lo vivo con te, che quello in cui sono cresciuto in tutti questi millenni.”

E Jin gli crede. Non fa nessuna fatica, perché è lo stesso sentimento che ha sentito crescergli nel petto giorno dopo giorno e che lo ha reso impotente di fronte a quella forza così devastante, ma che lo ha anche reso vivo per la prima volta, ubriaco di quell’azzurro che lo scruta e lo ammira come se fosse lui ad essere bello ed etereo e trascendere i mondi – come se fosse lui, e non Taehyung, ad avere la perfezione di un angelo, l’eleganza celeste della creatura più divina del creato.

Jin lo osserva, mentre Taehyung si stira al centro del letto, i muscoli ancora leggermente assopiti e forse appena doloranti, prima di mettersi seduto all’estremità del materasso, ciondolare un attimo i piedi e infine alzarsi, la sua figura splendida a stagliarsi contro la luce del sole che filtra dall’unica finestra della camera. Splende anche così, Taehyung, senza alcun bisogno di appartenere all’eden – anzi, splende ancora di più, se possibile, per il sorriso spontaneo che è destinato solo a lui, e che lo rende così dannatamente umano.

Ma la mano di Jin si tende di nuovo, attirata irrimediabilmente da quelle cicatrici che macchiano la schiena di Taehyung, e si poggia sul piccolo spazio tra di esse, con devozione.

“Fa male?” domanda.

E Jin sa di non riferirsi al dolore di quelle ferite troppo nere per poter essere naturali, no. È l’ultima cosa che si permette di domandargli, l’ultima cosa che vorrà sapere: se Taehyung si sia pentito della sua scelta. Ma Taehyung, semplicemente, si volta per nascondergli la schiena ed essergli totalmente di fronte. La cerca lentamente, la mano che Jin stava facendo sostare tra i segni delle sue debolezze, e la stringe piano, sfrega il pollice sui polpastrelli come a cancellare qualsiasi traccia del passato. Sono movimenti controllati e decisi, Taehyung si prende tutto il tempo possibile per far sì che Jin capisca. E poi, solo quando ha la sua totale attenzione, quando sa che nella sua mente non c’è nient’altro se non l’estasi di questo loro legame indistruttibile nonostante i loro mondi così differenti – solo quando sa di avere, totalmente, fatalmente, anche il suo cuore, lo dice.

“Non sono mai stato così felice, Jinnie.”

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