But I already love your hatred
Feb. 19th, 2021 10:47 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
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È notte fonda, ma Namjoon è ancora immerso nelle luci calde del grande salone di casa Kim, musica pregiata di sottofondo e gli schiamazzi degli invitati nelle orecchie. È poggiato con la schiena alla parete, le braccia incrociate, nella posizione migliore che ha trovato per osservare la partita di biliardo che si sta svolgendo poco distante – o, meglio, per osservare la figura di Seokjin: come il suo corpo si allunga sul tavolo con eleganza, le dita che sfiorano appena il panno verde, il modo in cui si morde il labbro inferiore prima di dare un leggero colpo alla stecca e, inevitabilmente, mancare la palla 7 per l’ennesima volta quella sera.
Le risa dei commensali – amici di padron Kim – si levano istantaneamente, e nemmeno Namjoon riesce a trattenere un piccolo ghigno nel vedere l’altro passarsi una mano tra i capelli neri, adesso troppo lunghi, esasperato ma divertito dall’ilarità della situazione, affatto imbarazzato degli errori che lo hanno portato a non avere ancora nemmeno un punto, nonostante abbia cominciato a giocare già da un’ora buona; invece, Jin ascolta cordiale i consigli che gli altri partecipanti gli stanno dando come se non fosse già un uomo ma ancora un ragazzino, mani raggrinzite che battono sulle sue spalle larghe con scherno, sei ancora giovane per poter vincere, Seokjin-ssi, non hai il talento di tuo padre. Ma Namjoon sa che l’espressione che vede dipinta sul suo volto, quel sorriso affabile, gli occhi socchiusi in una mezzaluna perfetta, è solo una cortesia, e gli provoca un leggero brivido lungo la schiena: il primogenito della famiglia Kim potrà non essere un prodigio del biliardo, certo, ma il suo valore supera nettamente quello di tutti coloro che adesso stanno dileggiando le sue abilità, e sa che anche Seokjin stesso ne è perfettamente consapevole. E per questo lascia che i vecchi colleghi di suo padre parlino, senza battere ciglio, che si crogiolino nella sicurezza di essere migliori, più saggi, più furbi, che abbiano l’illusione di starlo deridendo – ma solo perché è lui stesso a permetterlo, per tenerli ubriachi e soddisfatti prima di discutere di affari, più in là nella serata.
È solo qualche minuto dopo che lo vede avvicinarsi nella propria direzione, viso stanco ma labbra ancora stirate in un sorrisetto compiaciuto. Seokjin gli si mette accanto, spalla poggiata alla parete, sguardo rivolto solo a lui – una meritata pausa da quella festa così snervante.
“Hai perso”, gli dice Namjoon. Non è una domanda, e ride a sentire il verso lamentoso che scappa dalla bocca dell’altro.
“Gioca per me, Joonie. Riscatta la mia dignità in quanto padrone di questa casa.”
“Cosa ti fa pensare che vincerei?”
E, solo per quel momento, Namjoon vede la linea morbida dei suoi occhi farsi seria, un peso nello sguardo di Seokjin che lo àncora dov’è, lasciandolo incapace di muoversi – ed è la stessa forza che ha imparato a conoscere negli anni, che si nasconde dietro quei lineamenti delicati, la sua presenza regale, ma c’è, e lo tormenta e lo eccita allo stesso tempo. Come una falena che muore a causa dell’insopportabile calore della luce che l’ha attratta, così Namjoon sa che Kim Seokjin è una trappola ben congeniata, un terreno che lo inghiotte inesorabile e da cui non sarà mai in grado di liberarsi. Ma, onestamente, non gl’importa.
Non più.
“Mi fido di te, Joonie. Vinceresti di sicuro, per me.”
È tutto ciò che dice Seokjin, e gli basta.
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La vita di Namjoon è sempre stata guidata dai soldi.
Non perché la sua famiglia fosse particolarmente ricca, no, affatto. Ma sua madre, la donna che ha fatto finta di crescerlo con affetto per tutti quegli anni, aveva anche un fiuto eccezionale per gli affari – e non si trattava di offerte di lavoro, di promozioni, di investimenti azzeccati, assolutamente no: si trattava di uomini.
È un’arte calcolata, scegliere l’uomo giusto nella rigida città di Seoul, l’uomo che sia disposto a prendersi in carico una donna bellissima, sì, ma con aspirazioni e passatempi decisamente troppo costosi per la sua età, e il figlio che si porta dietro, un presunto genio dalla statura alta e le spalle ossute; l’uomo che possa spingerli, a poco a poco, verso i gradini più alti della società, e salvarli dalla loro condizione di nessuno, banali cittadini con non più di uno zero nelle carte di credito. Non che a Namjoon fosse mai importato qualcosa, in realtà, del denaro che possedevano: a lui certamente bastava, ma sua madre aveva sempre ripetuto che loro due meritassero il meglio che il mondo avesse da offrire.
Namjoon non ha mai avuto la forza per biasimarla – non quando lei l’ha allevato da sola, combattendo con unghie e denti perché non gli mancasse mai nulla di concreto, non un libro per corsi avanzati, non un pasto comprato alle macchinette della stazione – ma a volte ha pensato se sua madre non si fosse venduta, per quella vita così agiata che tanto aveva agognato, se non avesse fatto troppi compromessi – come sulla dignità, forse, sicuramente sull’attenzione che non ha mai avuto per lui, sicuramente sulle notti che ha passato nei salotti addosso a chissà quale avvenente magnate. A volte ha pensato se fosse così necessario, scalare per non essere divorati dalla povertà, ingannare con baci, coccole, carezze, promesse di anelli e diamanti che invece non arrivavano mai e allora era meglio fuggire verso altri lidi, cercare nuove opportunità.
A volte ha pensato se questo fosse l’unico modo per realizzarsi. E la risposta che ha sperato fosse quella giusta era una sola: no – sarebbero stati gli studi a portarlo alla vetta, non i soldi, non la scaltrezza. Unicamente i suoi meriti.
Non si era stupito, quindi, quando sua madre gli aveva annunciato, poco tempo dopo il suo quindicesimo compleanno, di avere un nuovo fidanzato, il sorriso brillante come se fosse un’adolescente. Namjoon l’aveva vista comportarsi a quel modo per troppe volte in vita sua, ma quel giorno gli era sembrata diversa, i suoi occhi con una tinta definitiva che per un momento lo avevano fatto ingoiare a vuoto.
Joon-a, gli aveva detto, non sei contento, lui è forte e ricco e non ha problemi a chiamarci ‘famiglia’.
Non sei contento Joon-a, aveva ripetuto, sarà lui a pagarti gli studi, adesso che stai diventando grande.
E sua madre, quella volta, aveva detto la cosa giusta. Forte e ricco: l’uomo di cui si era invaghita era niente meno che uno dei fratelli della casata Kim. E da solo, quel nome, aveva messo a tacere Namjoon, come una sentenza che gli aveva fatto contrarre le spalle, abbassare la testa in un muto segno di riverenza – di paura. Namjoon avrebbe preso il cognome della famiglia più potente di tutta Seoul, se non di tutta la Corea del Sud; avrebbe portato il fardello delle loro gesta, della loro avidità, della loro brama di comando, e supremazia, e denaro.
Di tutto ciò che gli faceva rivoltare lo stomaco.
Non era sciocca, sua madre, e sapeva esattamente nelle braccia di chi si fosse buttata: l’aveva fatto coscientemente, sacrificando qualsivoglia morale a favore del lusso, dell’oro che avrebbe portato tra le dita, di una vita più semplice perché abbiente, perché prestigiosa, perché potente. Le girava la testa al solo pensiero di essere così in alto, e di non aver bisogno di scalare ancora. Era già sulla vetta.
Quel giorno, Namjoon aveva chiuso i pugni così forte da ferirsi la pelle, e aveva promesso a sé stesso che non sarebbe mai diventato come lei. Non si sarebbe mai venduto per del denaro sonante.
Ma le promesse, avrebbe scoperto, sono proprio fatte per essere infrante.
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“Namjoon-a, hai paura dei nostri soldi?”
Quel giorno era rimasto a studiare nel piccolo salone dell’ala est, troppo concentrato sul testo da tradurre per far caso a molto altro. Aveva alzato la testa dai fogli su cui era stato piegato per chissà quante ore, rivolgendo uno sguardo confuso all’altro ragazzo presente nella stanza, che invece stava comodamente seduto su una raffinata poltrona in pelle nera, il pollice in mezzo alle pagine del libro che stava leggendo per tenerne il segno.
Era il figlio del più grande dei fratelli Kim – colui che tirava le fila di tutta la famiglia, apparentemente – e la prima volta che Namjoon l’aveva conosciuto, più di sei mesi fa durante la sua primissima visita alla villa nella quale sarebbe inevitabilmente andato a vivere, aveva sentito come se uno spillo sottile gli avesse punto appena sotto la nuca, una sorta di avvertimento: Kim Seokjin era elegante, con i tratti ancora infantili del viso nonostante avesse due anni più di lui, e la delicatezza usuale di chi è da sempre cresciuto nella bambagia. Ma una piccola parte di Namjoon, quella volta, aveva avvertito pericolo – e in quel primo momento aveva pensato che fosse assurdo, ma più era passato il tempo più si era fidato della prima impressione.
L’intensità della forza di Jin era sottile, invisibile agli occhi che non gli prestavano abbastanza attenzione, ma così lampante ai propri. E anche adesso, che l’altro lo stava guardando con un’espressione serena che accentuava ancora di più i suoi lineamenti rotondi, Namjoon poteva sentire chiaramente il proprio respiro vacillare. Ma l’orgoglio gli avrebbe impedito con tutte le forze di mostrarlo.
“Ho sentito che hai rifiutato l’assegno che lo zio ti aveva promesso perché frequentassi il corso avanzato.”
Namjoon si era limitato a mugolare qualcosa che somigliasse ad un’affermazione. Non avrebbe permesso che quei soldi costruissero il suo futuro – non se arrivavano dal fidanzato di sua madre, che avrebbe poi preteso da lui assoluta fedeltà e gratitudine, e Namjoon non era ancora pronto a piegarsi a quel tipo di accordo. Non era un prezzo adeguato da pagare per vendersi.
“Ed è per questo ti sei messo a fare il barista in quella bettola? Perché sei sicuro di riuscire a pagarlo da solo, il corso, con la miseria che ti pagano?”
Aveva sentito la rabbia attraversargli l’intero corpo, fermarsi all’altezza dei suoi denti stretti, della punta arrossata delle sue orecchie. Come si permetteva? Seokjin non era affatto nella posizione di giudicare o di metterlo in ridicolo, non quando non aveva mai dovuto lottare per nulla in vita sua, quando era già nato in una famiglia alla guida dell’impero economico più grande di tutta Seoul, con tutto quello che si potesse desiderare in una società così crudele e classista come quella in cui vivevano: denaro e potere. Non servivano nient’altro, e Seokjin le possedeva entrambe, insieme alla grazia della sua figura attraente e fatale allo stesso tempo.
Eppure quello che lo aveva sconvolto di più non era stato quel commento, quanto il fatto che Seokjin avesse ragione: aveva centrato il punto con una precisione millimetrica, perché Namjoon sapeva benissimo che, per quanto duramente avesse potuto lavorare, non sarebbe comunque mai riuscito a pagare il corso avanzato, meno che mai i materiali che gli sarebbero serviti – e aveva allontanato questo pensiero per lungo tempo, nella speranza, forse, che succedesse un miracolo e i soldi si moltiplicassero come per magia; ma in quel momento le parole di Seokjin erano una lama puntata al collo, il filo spaventosamente vicino alla pelle, e Namjoon si era sentito in gabbia. Perché era stato uno stupido a non aver ascoltato le previsioni e i calcoli che si era costretto a fare con le mani nel portafogli, perché era stato solo un illuso al pensiero di poter continuare gli studi contando solo sulle proprie forze, perché per quanto si sforzasse il denaro era ciò che lo comandava e questo pensiero lo aveva fatto sentire impotente, un inutile nessuno che si dimenava per uscire da una prigione che gli era, invece, stata costruita addosso, dando spettacolo della propria debolezza a chiunque lo guardasse dall’esterno.
E perché era stato uno stupido a rimanere in silenzio davanti a quel che era una palese provocazione da parte di un ragazzino viziato. Era sbottato.
“Cosa vuoi saperne tu, eh? Credi che tutto piova dal cielo come per te? Credi che io abbia le tue stesse opportunità? O vuoi solamente prendermi per il culo?”, aveva urlato, buttandosi in avanti per poter guardare meglio l’altro in viso, le spalle rigide, il calore nelle guance insopportabile.
Seokjin, invece, l’aveva semplicemente osservato, senza muoversi, per niente impressionato dalla scenata a cui aveva appena assistito. Nessuna traccia di scherno sul viso, nessun sorrisetto da prendere a schiaffi, neanche un accenno di commiserazione negli occhi. Namjoon aveva esitato, incapace di capire perché l’altro non si stesse accanendo su di sé e, più di tutto, perché non riuscisse a trovare, in quell’espressione, nessuna delle accuse che aveva immaginato. Che si fosse sbagliato?
Alla fine Seokjin si era alzato dalla poltrona, sfiorandogli appena il braccio, e aveva poggiato una piccola pila di banconote sul tavolo, accanto ai propri fogli. Anche solo ad una prima occhiata, era un ammontare assurdamente alto. Si era sentito mancare.
“Sono miei, Namjoon-a, non devi restituirmeli, non m’interessa. Tua madre e mio zio non sapranno mai che li hai presi. Continua a studiare, così potrai insegnare un po’ d’inglese anche a me.”
Namjoon era rimasto in silenzio.
“E tu cosa ci guadagni, hyung?” aveva mormorato poi, l’attenzione rivolta completamente all’altro ragazzo.
“Sei una scommessa”, aveva detto Seokjin, e aveva sorriso, in quella maniera familiare che non mostrava mai. Quasi con affetto. “La mia scommessa.”
Namjoon aveva abbassato la testa, allungando la mano con vergogna per prendere il folto mazzetto e infilarlo nella tasca dei jeans, senza una parola. Si sentiva sporco: per un certo verso, aveva tradito la promessa che aveva fatto a sé stesso, perché i soldi di Seokjin non erano sicuramente più puliti di quelli del fidanzato di sua madre – eppure, per qualche assurdo motivo, di Seokjin si fidava. Anche adesso, a sentire il suo sguardo sulla pelle, Namjoon non si sentiva colpevole. O meglio, era una colpa che pensava di sopportare. Solo perché, ad infiggerla, era stato Seokjin.
E, ancora una volta, si era promesso di essere migliore. Di pensare più veloce, essere sempre un passo avanti, non farsi sfuggire nulla – se mai l’altro l’avesse fregato, Namjoon sarebbe stato pronto. Era questa la scusa che il suo cervello aveva accampato, quel giorno, per allontanarsi dalla paura troppo presente di star cominciando a somigliare a sua madre.
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Ma il sangue non mente.
Namjoon lo aveva scoperto quando, allo scoccare dei suoi venti anni, Seokjin aveva richiesto la propria presenza nelle sue stanze, la voce priva di quella compostezza che tanto lo distingueva.
Gli aveva presentato Min Yoongi.
Quel nome lo aveva paralizzato all’istante, bocca secca e fiato sospeso: la famiglia Min era la seconda più potente nell’intera Seoul, eterna rivale della famiglia Kim, e particolarmente nota per i suoi metodi poco ortodossi di azione in situazioni estreme. E allora perché uno dei suoi eredi era in questa casa, seduto a gambe incrociate sul tappeto, con due portatili molto costosi davanti e un’altra dozzina di apparecchiature sparse per tutto il pavimento? Perché sembrava essere assolutamente a suo agio anche se si trovava nella tana del nemico? Era un’occasione pericolosa e tutti e tre, era sicuro, ne erano perfettamente consapevoli. La mente di Namjoon aveva cominciato a fare salti e congetture, e Seokjin aveva sicuramente percepito la sua espressione aggrottata perché si era affrettato a poggiargli una mano sulla spalla, gli occhi rassicuranti.
“È innocuo, Joon-a. Un amico.”
Nonostante i cinque anni passati in quella villa – passati con Seokjin, non aveva mai saputo di quest’amicizia. Il pensiero gli aveva portato un fastidioso peso all’altezza del petto, la rabbia causata dalla confusione e dal pensiero di un possibile inganno aveva cominciato a montargli nelle ossa.
“Cosa ci fa lui qua?” aveva detto, sottraendosi al tocco di quelle mani esili.
Yoongi non aveva nemmeno fatto cenno di averlo ascoltato, nonostante Namjoon sapesse benissimo che lo aveva fatto. Invece gli aveva lanciato un’occhiata tagliente, da sotto i capelli biondi e slavati, probabilmente danneggiati dalle troppe decolorazioni.
“Jin-hyung mi ha detto che sei bravo con certe cose,” gli aveva semplicemente spiegato “e mi serve una mano.”
E poi aveva aggiunto, “sono sette milioni”.
Namjoon aveva capito, e aveva sgranato gli occhi d’istinto. Sì, gli era certamente capitato di aiutare Seokjin in queste faccende prima – era inevitabile, facevano parte della stessa famiglia adesso e Seokjin lo aveva accolto a braccia aperte, donando senza mai chiedere nulla in cambio, nonostante la reputazione del nome Kim. Aveva partecipato a molte delle sue “vendette”, che consistevano in atti di hackeraggio ai danni delle persone che non gli andavano a genio e che lo avevano sfidato apertamente, e che spesso richiedevano abilità matematiche e linguistiche che Namjoon possedeva, furbo e sveglio come era sempre stato: a volte avevano preso dati sensibili per poter fare ricatti, a volte informazioni troppo personali, altre volte ancora denaro. Ma non era mai stata una somma così alta.
“Mio padre ha ordinato, e ora devo eseguire. Ma ho bisogno di te.”
La voce di Seokjin era arrivata autoritaria, con una punta di fastidio che Namjoon adesso sapeva potesse emergere quando parlava degli incarichi che padron Kim gli affidava – come a verificare le abilità del primogenito che un giorno avrebbe ereditato l’impero, se fosse stato in grado di succedergli meritatamente – ma si era ammorbidita nel rivolgersi a lui. E Namjoon non aveva potuto far altro che annuire.
Si era seduto accanto a Yoongi senza fiatare, le loro spalle così vicine da sfiorarsi, a condividere due auricolari mentre cifre e numeri scorrevano veloci sugli schermi, Seokjin in piedi dietro di loro ad osservarli con attenzione. Era stato difficile tenere testa ai ragionamenti di Yoongi, che era evidentemente molto più bravo di lui a navigare stringhe di codici complesse, e imparare ad utilizzare tutti gli altri strumenti che si era portato dietro – ci erano stati un pomeriggio intero, tra dita che indicavano frenetiche e imprecazioni mormorate sottovoce, la tensione pesante sui loro sguardi attenti, sulle spalle rigide e le labbra strette. Si erano ridotti a sudare, mentre appuntavano gli ultimi passaggi sul taccuino e ritentavano per l’ennesima volta, gli occhiali stretti sul naso di Namjoon e le mani di Yoongi veloci sulla tastiera. C’era stato un minuto di silenzio in cui avevano semplicemente contemplato tutte quelle cifre, stanchi e affaticati come se avessero corso, la tensione ancora visibile nei loro muscoli contratti, finché non avevano visto lo schermo ricoprirsi completamente di nero e Namjoon aveva percepito Seokjin irrigidirsi dietro di sé. Poi Yoongi aveva premuto un dito sulla tastiera, e sul viso, illuminato dalla luce verde riflessa del computer, gli si era aperto un enorme sorriso compiaciuto.
“Cazzo,” aveva detto “abbiamo sette milioni.”
Le loro urla erano esplose, rauche e vibranti, dopo un attimo solo di silenzio. Seokjin lo aveva stretto a sé, nella foga, un braccio attorno alle spalle, l’espressione più estasiata che Namjoon gli avesse mai visto sul viso – ed era come uno specchio, perché sapeva bene di avere una smorfia simile sulle proprie labbra. Avevano esultato come ragazzini, ridendo euforici della loro vittoria, del denaro che avrebbero sperperato a piacimento, inebriati da quella sensazione di trionfo che li aveva resi leggeri e pieni di un orgoglio sciocco, di una superbia che avrebbe continuato ad inghiottirli interamente e alimentarli, fuoco labile che sarebbe bruciato nei loro petti e trasformato in una vampa pericolosa, un calore letale.
“Bravo, Joon-a,” gli aveva sussurrato all’orecchio Seokjin, il fiato caldo contro la propria pelle, ubriaco, sì, ma non di soldi, non di potere, ma di quel successo che avevano conseguito insieme, ancora una volta – anche se questa sembrava così diversa. E poi, di nuovo, “la mia scommessa migliore.”
E Namjoon in quell’istante aveva pensato che, forse, la sensazione travolgente di vertigine non fosse data affatto dai soldi. E che ne avrebbe voluto ancora.
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“Hyung, non voglio che tu mi tenga più nascosto nulla.”
Lo aveva detto, il giorno dopo, mentre erano da soli nella camera, l’eccitazione delle ore precedenti sparita per fare posto ad una sensazione fastidiosa a cui Namjoon non aveva saputo dare un nome – non aveva voluto dare un nome. Perché se Seokjin gli aveva mentito su Min Yoongi, e se l’aveva fatto con una grazia squisita fino a quel punto, allora poteva star mentendo da anni – e, peggio, Namjoon ci aveva creduto, perché si era così tanto abituato alla presenza dell’altro, ai suoi modi di fare, alla maniera in cui erano soliti stare vicini alle serate di gala, che aveva abbassato la guardia, come uno stupido. Si era fatto manipolare, forse, e l’aveva fatto con coscienza. Aveva coltivato, dentro di sé, un’emozione così strana per lui, che si era sempre considerato un uomo razionale – ma le sensazioni che aveva provato ogni volta che si era trovato in presenza di Seokjin, nel corso di questi cinque anni, quell’euforia che gli aveva fatto dimenticare ogni morale e lo aveva fatto vivere nel rifiuto della realtà da cui aveva invece promesso di non allontanarsi, ecco, nonostante non fosse riuscito a comprenderle, lo avevano divorato comunque, imperterrite, implacabili. Come Seokjin.
Che adesso gli stava sorridendo, affabile.
“È una pretesa divertente, Joon-a,” l’espressione interessata, “perché, non ti fidi di me? È per la questione di Yoongi? Andiamo, ti ho già detto come stavano le cose. Dovevo proteggerlo, nasconderlo dalla sua famiglia. È stato necessario.”
Ed era vero, Seokjin gli aveva spiegato solo successivamente tutta la situazione e come fosse stato assolutamente indispensabile tenerlo all’oscuro della presenza di Yoongi nella villa e nella sua vita. Namjoon l’aveva accettato, era comprensibile. Eppure, da qualche parte all’interno della sua mente, qualcosa aveva continuato a pizzicare, a pungerlo lentamente: la consapevolezza che il loro rapporto non fosse così indispensabile, così esclusivo da metterlo subito al corrente dell’accaduto; sapere che Seokjin avesse segreti che non era disposto a confessare, che Namjoon non fosse l’eccezione – ed era così assurdo, perché sapeva di averle rinnegate, le attenzioni di Seokjin, per lungo tempo, con la paura di vendersi a qualcosa che non aveva la possibilità di controllare e che invece avrebbe potuto controllarlo. E Namjoon non aveva saputo affatto capire perché, tutto d’un tratto, bramasse queste richieste così irrazionali; non era riuscito a spiegarsi quale forza gli avesse permesso di stare, adesso, davanti all’altro, mani nelle tasche, occhi fissi sulla sua figura esile.
Non aveva risposto, continuando a mordere il labbro inferiore con una flemma invidiabile.
Si era sentito come se, per tutti questi anni, Seokjin avesse avuto il palmo della mano premuto sul proprio petto, ad un’altezza troppo vicina al cuore, e avesse continuato a fare pressione lentamente ma con decisione, soffocandolo, togliendogli il fiato. Ma anziché sentirsi morire, Namjoon aveva percepito il proprio corpo formicolare, e una impressione quasi nauseante alla bocca dello stomaco che però, aveva deciso, non era dolore. Non poteva esserlo, perché si sentiva come se potesse conquistare qualsiasi cosa, quando era con Seokjin. Bramava la sua attenzione.
E stranamente, aveva voluto sapere se anche l’altro sentisse questa stretta insopportabile che li legava.
Un compromesso, era questo che stava cercando – o meglio, una rassicurazione. Qualcosa che lo facesse sentire ancora più al sicuro al fianco di Seokjin, qualcosa che allontanasse la terribile necessità di spingerlo via, di non fidarsi più, di scappare prima che quel mondo e quegli occhi potessero avere troppo controllo su di lui. Anche se, lo aveva capito, era ormai troppo tardi, e non avrebbe comunque mai avuto il coraggio di fuggire, abbandonarlo. Questa scoperta lo aveva tenuto sveglio durante la notte, mentre ripensava al modo in cui l’altro lo aveva stretto, il giorno prima, nel momento in cui aveva scoperto di aver vinto.
Namjoon era stata una priorità.
Alla fine Seokjin aveva sospirato, senza smettere di sorridere.
“Va bene, Joon-a. Sono d’accordo. Ma in cambio,” e Namjoon aveva sentito il tono della sua voce cambiare, farsi più profondo, pericoloso, così familiare perché assomigliava assurdamente alla sensazione che aveva provato anni fa e che ancora ricordava – anche adesso Seokjin gli avrebbe puntato una lama alla gola, nonostante non si stessero nemmeno sfiorando. Ma Namjoon si era sorpreso a non essere spaventato. Solo esaltato. “In cambio, lavora per me. Lavora con me.”
E Namjoon, in quel momento, aveva compreso quello che non era riuscito a cogliere durante il loro primo incontro: che l’innocenza negli occhi di Seokjin si scontrava prepotentemente col modo in cui lo aveva osservato, per tutto questo tempo – con autorità, non come se Namjoon gli appartenesse, no, ma come se fosse ciò che gli era sempre mancato, e lo stesse desiderando con ogni fibra del suo corpo. E Namjoon aveva scoperto che quella sensazione, di essere così disperatamente voluto dall’uomo che lo aveva tormentato dal primo giorno in cui aveva messo piede all’interno di quella famiglia malsana – quella sensazione gli piaceva. E non avrebbe voluto rinunciarci, per tutto l’oro del mondo.
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Namjoon ridacchia sommessamente, disteso appena sul panno verde del tavolo, le dita sottili avvolte sulla stecca e gli occhi puntati all’ultima palla in gioco, la numero 7, la stessa che ha decretato la disfatta di Seokjin nella partita precedente. Le da un colpo, sfiorandola appena.
Sarebbe arrivato un giorno in cui sarebbe stato capace di lasciarlo. Ricorda di averlo pensato, Namjoon, quando ha accettato per la prima volta il denaro dalle sue mani: Seokjin avrebbe prima o poi fatto un passo falso, un errore troppo grave, e lui avrebbe approfittato dell’occasione per tirarsene fuori, senza troppe cerimonie, perché in fondo non ha nessun legame, niente che lo trattenga.
Dieci anni più tardi, Namjoon si sente come un magnete, irrimediabilmente attirato dalla figura di Seokjin che, nel tempo, è diventato tutto ciò che non avrebbe mai immaginato. Come se l’altro lo tenesse annodato a sé, possessivo, e a Namjoon, veramente, non importa. Ha accettato di vivere nella tela del ragno: la presenza di Seokjin non gli fa mai sentire il fuoco che lo sta bruciando, a stare lì, e non potrebbe essergli più grato.
La imbuca, la palla 7, con una grazia sconosciuta anche a sé stesso, e non ha certo tempo di rimanere a guardare le facce degli invitati veterani, contratte in smorfie di sdegno, sconfitta – quelle che loro due non hanno mai dipinte sul viso, perché hanno collezionato unicamente vittorie, nel tempo che hanno trascorso insieme. Si dirige verso Seokjin che lo aspetta a braccia conserte, sul divano di pelle, e sa che non ha distolto neanche per un attimo lo sguardo dalle proprie mosse – lo sa perché ha il sorriso migliore che possa mai essere stato scolpito sulle sue labbra: grida orgoglio con una fierezza che lo prende alla sprovvista.
“Ho vinto”, gli annuncia, accomodandosi accanto a lui.
Seokjin gli poggia una mano sulla coscia, un gesto così intimo che lo fa sussultare.
“No, Joonie. Sono io ad aver vinto”.
E Namjoon non è sicuro che si riferisca al biliardo.