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BTS [sope], scritta per il cowt11 sotto il prompt "the beginning of a song someone will sing for me".
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“Hyung”, ha detto a Yoongi quella sera, seduti entrambi sul divano a guardare qualche stupido show in tv senza essere veramente interessati, gli occhi fissi sullo schermo, “credo di non avere più niente da dare.”

Yoongi l’ha guardato con una smorfia strana sul viso, i capelli troppo chiari in un disordinato groviglio, il corpo sprofondato sotto un nugolo di coperte colorate nonostante il riscaldamento sia acceso da chissà quanto tempo e la camera abbia una tiepida calura ad avvolgerli.

“Che cazzata è questa, adesso, Hob-a?”

Con tutti gli altri membri già ritirati nelle loro camere – Jimin e Taehyung probabilmente stretti nello stesso letto, Seokjin a giocare a Maple Story fino all’indomani – è sicuramente un orario troppo tardo per poter avere agilmente a che fare con questo tipo di pensieri, soprattutto per Yoongi. Ma Hoseok sa che il più grande è abituato al vuoto che lo attanaglia quando cala la notte e tutto intorno diventa insopportabilmente buio. Gli si infila sottopelle, Hoseok ha paura di non riuscire più a vedere altro se non questa oscurità terrificante, che lo spinge verso sentieri che, alla luce del sole, non prenderebbe mai.

Hoseok non ha nemmeno voltato lo sguardo.

“Ho danzato, ho cantato. Ho fatto rap nonostante non ne sapessi niente all’inizio di tutto questo”, le luci della tv si riflettono sui suoi zigomi affilati, le labbra strette in una linea sottile, insoddisfatta, “cos’altro può dare j-hope?”

“Non j-hope. Sei Jung Hoseok.”

La voce di Yoongi è ferma, quasi autoritaria. Ma anche così, Hoseok fa fatica a credergli.

Ed è esattamente questo il punto: in tutti questi anni di servizi fotografici e abiti cuciti su misura, di maschere da applicare ad ogni concerto per nascondere fatica e delusione, di sguardi da calcolare, tocchi da celare, movimenti a cui fare attenzione perché per ogni passo c’è una telecamera, un cellulare che ti filma e non ti è concesso sbagliare, distrarti, mentre il mondo va così veloce e camminare diventa sempre più faticoso, tenersi in piedi senza traballare è una lotta che si ripete ogni mattina – ecco, in tutti questi anni di cui Hoseok è grato ma anche stanco, in questa matassa di pensieri che si aggrovigliano e non lo abbandonano, dove inizia j-hope e dove finisce Hoseok?

Non sa rispondere.

J-hope è dovunque, dappertutto, lo ritrova nei vestiti che si spinge a comprare, nel modo in cui angola il telefono per prendere un selfie, nella composizione ordinata e allo stesso tempo caotica del suo studio, nell’enfasi che mette nei movimenti durante le coreografie – e nella musica, ed è qualcosa che ha iniziato a non sopportare, questa intrusione. Non nella musica, non nell’unica cosa che gli ha dato vita e speranza e un futuro: in quella vorrebbe esprimersi, esprimere Hoseok, ma com’è dannatamente possibile se j-hope lo plasma e l’avvelena ed è impossibile sentirsi altro?

E sa bene che tutti gli altri, dopo più di sette anni, sanno distinguere tra Hoseok e j-hope – perché j-hope è rumoroso a livelli estremi e incapace di sedere composto durante le interviste, è instancabile nonostante i mille impegni della loro quotidianità, è quello che li accoglie con un buffetto la mattina all’inizio della loro programmazione nella speranza di distendere i nervi dopo notti insonni, perché j-hope è fedele al suo nome e rifiuta di somigliare ad altro, perché j-hope ha le labbra distese in un sorriso impossibile da ignorare.

Ma Hoseok, no, Hoseok ha gli occhi affilati in sala prove, rimprovera e corregge per ore e ore finché il sudore non si accumula sulle ciglia e i muscoli non iniziano a fare male, e dice ancora, un’altra volta, anche quando tutti sono stanchi e tesi e Jin abbandona la sala perché non può stare dietro ai suoi passi insaziabili, bramosi della perfezione che Hoseok non riuscirà ad avere, non con quella frustrazione che gli tende i lineamenti e lo rende insofferente anche allo sfinimento di tutti gli altri.

Ma Hoseok ha anche una voce calma e intensa, quando sono tutti riuniti attorno ad un tavolo, la testa tra le mani e le lacrime che minacciano di rigare le loro guance, e dice che ce la faranno così come ce l’hanno fatta finora, e le sue mani sono forti e calde appena si posano sui loro corpi, per accarezzare la nuca di Namjoon, la coscia di Jimin, per spingerli in avanti senza rimorsi, le sue braccia che accolgono le loro spalle in silenzio, come sempre.

E per questo sa che gli altri ammirano j-hope, ma amano Hoseok, incondizionatamente. Su questo non ha dubbi.

Eppure è Hoseok a sentirsi stretto, troppo stretto nel guscio che j-hope ha costruito per lui, e sono due identità che si mischiano con una facilità così disarmante che Hoseok perde spesso il filo di quello che è, quello che vorrebbe essere.

Ed è in momenti come questo, in cui Hoseok non riesce a distinguere tra sé e j-hope, che Yoongi sa cosa fare. Perché, inevitabilmente, Yoongi lo osserva da anni, lo ha mappato con le mani, con la lingua, con lo sguardo, lo ha fatto suo e ha lasciato che anche Hoseok lo possedesse; condividono lenzuola, pensieri e idee, e spesso, troppo spesso, anche paure troppo grandi per loro. Yoongi riconosce che le macchinazioni della mente di Jung Hoseok vanno decisamente oltre il sorriso brillante che mostra ogni giorno, sa che a volte quei meccanismi si inceppano e allora è compito suo, non per dovere ma per piacere, oliarli affinché tornino a funzionare senza intoppi.

Hoseok non sa cosa dire, le parole gli muoiono in gola e quindi semplicemente annaspa, l’oscurità della stanza troppo pesante sulle sue spalle – non vuole veramente parlarne, anche se la necessità di definire questa linea sottile tra i suoi due sé è sempre più impellente, e lo ha spinto ad iniziare il discorso. La verità è che non sa cosa vuole, non sa se discuterne potrebbe portarlo ad una notte di sogni tranquilli o ad un completo breakdown, così come non sa se vivere come j-hope o come Hoseok. È un groviglio insopportabile e forse – forse vuole semplicemente che sia Yoongi a capirlo, perché in tutti questi anni, Hoseok non c’è riuscito.

Alla fine guarda Yoongi sospirare, accanto a lui sul divano, e poi togliersi tutte le coperte da dosso e alzarsi lentamente, dirigendosi verso le camere. Per un attimo ha quasi paura che il più grande stia semplicemente andando via, senza dire una parola, ma poi lo vede tendergli la mano, ed è un’immagine così familiare, Yoongi con quella felpa troppo grande per il suo corpo minuto, gli occhi assonnati ma le labbra distese teneramente, i piedi scalzi sulle mattonelle fredde del pavimento.

“Che c’è? Non vieni a letto?” ed è così chiara che quasi brilla, la sua voce.

Hoseok allora sorride. Perché, come sempre, non ha avuto bisogno di raccontarsi con Yoongi.

Anche lui si scosta dal divano per potere afferrare la mano che il più grande gli sta porgendo, e si lascia guidare per il corridoio fino alla stanza di Yoongi – che è assurdamente in ordine perché passa più tempo allo studio che in qualsiasi altro posto –, lascia che sia Yoongi a chiudere piano la porta, condurlo verso il letto e distenderlo, prima di sistemarsi accanto a lui e tirare la pesante trapunta quasi sopra la testa di entrambi.

C’è uno strano conforto nell’accettare le carezze di Yoongi, nell’avere il suo braccio lungo la vita, una mano posata leggera su un fianco scoperto, a sfiorargli la pelle, mentre l’altra è affondata tra i capelli di Hoseok, sentire le sue dita che giocano distrattamente coi ciuffi castani, le unghie curate che ogni tanto grattano sulla rasatura come si fa con i mici. Hoseok pensa sia perché, solitamente, è Yoongi ad aver bisogno di tornare coi piedi per terra – è Yoongi a nascondersi tra scartoffie e demo per giorni e giorni finché non riesce più a sentire le ossa sottopelle e la propria stessa voce tra i mille pensieri, e allora brama le cure di Hoseok come una medicina, lunghi pianti fatti alla luce della luna finché quella tristezza, quel vuoto che inevitabilmente continua a tormentarlo non si affievolisce un po’, ed è di nuovo in grado di respirare.

Stavolta, invece, lascia che sia Yoongi a prendersi cura di lui. A rammendare tutti i suoi pezzi così come Hoseok ha molte volte rammendato i suoi, ed è ormai quello che fanno da tanti, troppi anni: cercarsi per poter essere riparati, perché se anche i cocci non combaciano più e minacciano di crollare di nuovo, non c’è nessuna sensazione che possa mai essere paragonata all’abbraccio che si sono scambiati, per tanto tempo, per poter rimanere intatti.

“Smettila di pensare, Hoseok-a”, il respiro di Yoongi è caldo sulla punta del suo orecchio, il tono poco più di un sussurro, “sei in grado di fare cose eccezionali. E poi che importanza ha, essere j-hope o essere Hoseok? Sei stato entrambi, ha sempre funzionato così. E guarda dove siamo arrivati. Cos’hai combinato.”

“Lo so hyung, è solo che–”

“È solo che sei uno stronzo, Hoseok-a, e credi di dover dividere a metà il tuo successo. Essere equo nei meriti, come se non ti spettassero. Ma credo che se j-hope non fosse esistito, Hoseok non sarebbe qua. Se ne sarebbe andato quella volta, prima del debutto, fregandosene dei singhiozzi di Jungkook. Ma j-hope ci ha creduto, ha sperato, ed è rimasto. E non potrei essergli più grato–”, e qui la sente, la voce di Yoongi che s’incrina appena, gli occhi che cercano i suoi nonostante il buio, “–o non avrei mai conosciuto Hoseok, altrimenti. E non avrei avuto il privilegio di dormire accanto a te, le notti in cui sei in questo stato.”

Hoseok a volte la invidia, la sicurezza con cui Yoongi parla, la sua capacità di centrare il punto senza lunghi discorsi. È la stessa cosa che fa con le sue canzoni: pochi caratteri che arrivano come stilettate al petto, e sono esattamente quel che pensavi, quel che stavi cercando. Quel che ti serviva. È un talento naturale, ma questa volta nelle sue parole c’è una dolcezza che è riservata solo ad Hoseok, una intimità che si è costruita dopo anni di baci rubati e lacrime asciugate con polpastrelli bagnati. E Hoseok non si è mai sentito più fortunato, nell’avere nella sua vita l’unica persona che riesce a cantarlo con le note giuste, anche quando lui stesso non riesce a suonarle. Accade una sola volta, questa chance, e forse Yoongi ha ragione – se non fosse stato per j-hope, non l’avrebbe mai potuto avere così vicino, il battito del suo cuore che gli martella nelle orecchie.

Prima però che possa fare qualcosa – ringraziarlo, no, dirgli che è straordinario, che non c’è nessun altro con cui vorrebbe condividere l’altra metà della sua esistenza, tra successi e perdite, tra timori e mani intrecciate – Yoongi lo guarda come se avesse ancora qualcosa da dire, come se fosse importante, e stesse aspettando esattamente questo momento da chissà quanto.

“E non avrei mai potuto farti ascoltare questa.”

Hoseok capisce immediatamente a cosa si stia riferendo nel momento in cui lo vede inumidirsi le labbra, nello stesso modo in cui fa ai concerti prima di sputare sillabe e sillabe nel minor numero possibile di secondi – e adesso hanno senso, tutte le notti che ha passato al Genius Lab ultimamente, i pranzi che Hoseok gli ha lasciato davanti la porta prima di tornare a perfezionare la coreografia: Yoongi ha scritto qualcosa.

È solo quando il più grande comincia a mormorare una melodia, suoni grezzi che arrivano dalla gola ma sono ugualmente così intonati che quasi può scriverli in chiave su uno spartito, che Hoseok lo nota, il sorriso che gli si dipinge sulle labbra pallide – non è vistoso ma timido, familiare, gli scopre appena i piccoli denti e Hoseok pensa che anche quello è Yoongi, guance paffute e sguardo insonnolito, così diverso dalla figura che si esprime feroce sul palco: è un onore solo suo, poterlo vedere così fragile, questa felicità sottile come vetro che gli trasforma i lineamenti e lo rende ancora più bello.

E poi arrivano le parole, e Hoseok trattiene il fiato – sono sussurri di conforto, quiete, su come tempo e spazio guariscano ferite che sembrano troppo profonde per poter essere bendate, su come perdersi sia necessario per ritrovarsi, o non ritrovarsi affatto, amare, cambiare, sperare, fa male, ma fa meno male se si è in due, se posso guardarti dormire dopo aver sanguinato in silenzio – e la voce di Yoongi è roca, graffia per natura, ma questa notte scivola come miele su tutto il corpo di Hoseok, lo mantiene vivo, lo sente nelle ossa, è dolce e straziante, a volte sembra tremare, rompersi e ricomporsi, e Hoseok vorrebbe avere la forza di interromperlo e baciarlo, mettere le mani sulla sua nuca e spingerselo contro, stringerlo disperatamente, mordergli le labbra finché non sono entrambi esausti ed ansimanti sul materasso.

Ed è vero: le parole di Agust D sono sporche, sputate sul cemento, oscene e tagliano con precisione dove la pelle è più sottile, sono zanne scoperte pronte a mordere, unghie che raschiano e marchiano, lasciano segni rossi su labbra lattee, un macabro teatro di violenza e ostentazione e dolore.

Invece, le parole di Suga sono ambiziose, una superbia letale espressa con toni misurati, ritmi serrati, inebriano come ambrosia dorata, e sono piene di una sicurezza disinvolta, una fiducia in sé, negli altri, nel mondo, nonostante tutto il resto – si completano con altre sei voci, ed è la loro opportunità per essere ascoltate, dopo anni passati su carta straccia.

Ma le parole di Yoongi, no, quelle arrivano strozzate da un corpo martoriato, sono deboli e stanche e a volte hanno un’ineluttabilità devastante, come se fosse l’ultima volta che vengono pronunciate. Ma non è mai l’ultima – perché Yoongi ci vive, nella sua musica, è lei a costruirlo e levigarlo come onde che si schiantano, e lui si lascia trasportare, nessuna resistenza, e forse è per questo che è il genio che tutti hanno imparato a conoscere: perché li accetta, accetta Agust D e la sua brutalità, Suga e la sua brama, accetta Yoongi.

E se Yoongi è capace di essere tutti e tre, di mischiare crudezza e impazienza e sofferenza con questa leggerezza squisita, allora anche lui sarà capace di essere j-hope e Hoseok insieme.

E per questa notte ha deciso di essere Hoseok, in questo letto, stretto a Yoongi che ha deciso di essere Yoongi e cantargli della loro tristezza, perché la speranza ce l’hanno già, l’uno nelle braccia dell’altro, nel momento in cui Hoseok decide di aggiungere un paio di altri mormorii alla melodia di Yoongi, e si ritrovano a intonarla, insieme, inciampando ogni tanto negli sguardi che si scambiano, nelle labbra che si sfiorano.

“È per te, Hoseok-a. Da parte mia.”

È l’inizio di una canzone che qualcuno, un giorno, canterà per me. Su un palco, microfono in mano, senza pudore, gridando a squarciagola quanto abbiamo sopportato e quanto ci siamo cercati. Nessun frammento da ricomporre, solo noi, completi, le nostre crepe colmate con l’oro che ci siamo donati.

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