So I wait at the gates of your fortress.
Feb. 12th, 2021 07:18 pm![[personal profile]](https://www.dreamwidth.org/img/silk/identity/user.png)
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È la seconda sera che stanno seduti attorno ad un fuoco flebile, le tende già montate dietro di loro, lattine di cibo precotto che vengono passate di mano in mano con riverenza sacra.
Sembrerebbe quasi che stiano facendo un picnic in mezzo alla natura se solo non si trovassero in uno dei territori più radioattivi del globo, se Jun non sentisse ancora un forte dolore al naso, se Maddie non avesse gli occhi umidi di pianto, e se il pensiero di aver lasciato Xaver e Ruben in città non rendesse i sospiri di tutti ancora più tremanti, incerti. Sono stanchi, sì – hanno percorso chissà quanti chilometri da quando hanno imbastito una frettolosa fuga dalle mura, prima di quanto sarebbe stato necessario secondo i piani, e da quando hanno seminato, non con poca difficoltà, le guardie che si sono avventurate per inseguirli, abbandonandoli al loro destino di morte certa poco dopo.
Le gambe cedono spesso mentre camminano, i respiri affrettati, e la luce che hanno visto il primo giorno da quella collina – quella che li ha accecati, che li ha fatti stringere nel nome di una speranza vana e lontana, il calore delle loro promesse vivo e presente nei loro abbracci disperati – adesso non illumina più i loro volti, che invece sono coperti dall’ombra delle frasche della fitta foresta. Ma la stanchezza che aggredisce tutto il gruppo trascende quella fisica, e avvolge senza pietà i loro corpi, penetra nelle ossa, è ossessiva in ogni loro pensiero. È la stanchezza di chi è solo, contro il mondo, senza uno straccio di conforto nello sguardo, la testa bassa, i passi pesanti tra le foglie. Se non ci fosse Pasha, coi suoi sensi felini, chissà quante volte si sarebbero già persi.
Il modo in cui i loro piedi si abbattono sul terreno, incessantemente, un rumore sordo che li accompagna ad un inevitabile patibolo, fa sussultare Jun ogni volta. E non crede di essere mai stato così miserabile, il naso sanguinante, storto appena e totalmente inutilizzabile, il viso sporco, le zanne che gli scavano le guance ogni volta che stringe i denti per il dolore, per l’impotenza che sente come una sciabola tra capo e collo.
Eppure ancora respira. Deglutisce. Non osa parlare.
È la seconda sera che si riuniscono attorno alle piccole fiamme che sono riusciti ad accendere, per tentare di scaldare il gelo che li attanaglia da qualche mese a questa parte. Ma non funziona.
È Shu-Li la prima a parlare, scuotendo tutti dal torpore della paura.
“Se… Se mai riuscissimo a- no, quando riusciremo a uscire fuori da questa situazione, salvare tutti. Tornare a casa. Cosa vorreste fare?”.
La sua voce è poco più di un sussurro, ma basta per spezzare il silenzio. Tutti la guardano stupiti per un attimo, consci che questo non è il suo comportamento usuale – Shu-Li è timida, silenziosa, tenta di spiccare il meno possibile in qualsiasi situazione. Forse è un risultante del suo potere, della sua vista così acuta che le permette di poter stare in disparte ad osservare, senza mai mancare un dettaglio pur non prendendo parte alla discussione. Eppure, se in questo momento ha deciso di frantumare l’incantesimo che l’ha tenuta sana per tutto questo tempo, allora forse il peso della loro malinconia comincia davvero ad essere esasperante, futile nel condurli fuori da quella trappola ma forte, troppo, nel tenerli stretti in rovi pungenti, che graffiano la carne ad ogni movimento, ad ogni accenno di speranza. Shu-Li si rifiuta di farsi piegare, di torcersi in questa stretta soffocante, ed è forse la più coraggiosa tra tutti, adesso, nel buio della notte.
“Comincio io. Appena torno a casa, vorrei poter comprare una macchina fotografica, una di quelle professionali, con un obiettivo potente, e scattare foto da molto lontano per mostrare quanto in là riesco a vedere. So che è una stupidaggine, ma mi piacerebbe provarci,” si interrompe giusto per un attimo, per alzare il viso in un moto di coraggio, raddrizzarsi con una fermezza che non le appartiene.
“Ho qualcosa.. ho qualcosa da dare al mondo che gli altri non hanno.”
Lo mormora, come se fosse un segreto che ha custodito per molto tempo e fa fatica ad esprimere, a spolverarlo dalla rassegnazione, dalla convinzione che sia solo una fantasia, una stupida utopia e non sarà mai in grado di realizzarla, nonostante sia un sogno semplice, un granello così piccolo rispetto a quello che stanno facendo ora- è la possibilità di immortalare il paesaggio, godersi lo scenario di una vita tranquilla, contro il dover salvare milioni di persone, nel poco tempo che è loro concesso. Eppure è il modo in cui lo dice, stretta nelle spalle, il modo in cui alza lo sguardo per osservare tutti loro, una determinazione negli occhi sottili che li disorienta.
Quando riusciremo, ha detto. Tornare a casa.
Qualcosa da dare al mondo che gli altri non hanno.
Jun non sa se si riferisca alla loro mutazione, alle caratteristiche che li differenziano dalle persone normali – a ciò che li ha condannati a camminare in punta di piedi per una vita intera, ad aver paura delle proprie emozioni, ad imparare in ogni modo possibile a reprimersi, a frenarsi, con le buone o con le cattive; Jun non sa se si riferisca a questo, a ciò che li rende unici, che li ha portati ad essere riuniti da un giorno all’altro sotto il nome della Resistenza, o se si riferisca a qualcosa che trascende i loro geni, trascende il loro DNA.
Se stia parlando della loro anima. Dell’anima che Jun ha imparato a conoscere in questi anni, che ha tentato di coltivare nel migliore dei modi perché non appassisse sotto il peso di ciò che non è concesso loro provare, dire, essere. E Jun ha scoperto che è una forza prepotente, pronta a mordere, scalciare, e si riflette con una chiarezza disarmante nei loro movimenti quando si allenano, nei loro occhi attenti che scrutano le piantine prima delle ricognizioni, nelle loro voci ferme quando rispondono agli ordini. Nei loro pugni chiusi contro il petto, in un dolore muto e sordo.
A cui non hanno mai ceduto.
Jun è d’accordo. Che Shu-Li si riferisca ad una o all’altra, ha ragione: hanno molto da dare al mondo. E lotteranno per poterlo mostrare.
Anche gli altri cominciano ad annuire, si guardano nel viso, Enoch batte una mano sulla spalla di Shu-Li, Maddie si asciuga le lacrime. Per la prima volta – dopo aver visto l’alba sorgere sulla collina, dopo aver assaporato una libertà futile, impossibile – si sorridono. E tornano a respirare: a farlo come se lo avessero dimenticato per le ore precedenti e adesso fossero nuovamente in grado, come se non fosse più scontato, come se vivere e avere la possibilità di combattere fossero ancora, di nuovo, privilegi che non sono mai stati pronti ad abbandonare. Per i quali non hanno mai smesso di bruciare.
“Io vorrei poter cucinare”, dice Enoch all’improvviso, il petto in fuori, rinvigorito dal cambio repentino di atmosfera tra loro, “ma non per voi, branca di ingrati, ma per uno chef vero. Vorrei lavorare in cucina e– ehi, Pasha! La mia zuppa l’hai mangiata però, e senza ridere!”, e mette su un finto broncio, le labbra protese comicamente all’infuori, fiero di aver allargato il sorriso sulla bocca di tutti col suo fare fragoroso. Jun è grato di avere compagni che sono in grado brillare in una notte così buia. Anche Ceci, che viene spronata dalla mano che Andrea le ha posato teneramente sul ginocchio, tira in fretta su col naso. Ha la voce rauca, di chi ha provato a trattenere le lacrime, ma i suoi occhi si accendono di una luce nuova mentre dice “Comprerò un cane. Adesso non me lo fanno tenere, posso solo accarezzare quello che c’è in casa dei Gyeongs quando lavoro. Ma ne voglio uno mio. Voglio insegnargli a sedersi, a darmi la zampa, voglio dormire insieme a lui.” Ha le guance rosse mentre lo confessa, e il calore che Jun sente al petto ha iniziato a bruciare di un desiderio lancinante. Ma è quando vede tutti scoppiare in una fragorosa risata – perché Olu lo ha appena paragonato all’animale domestico della Resistenza, scompigliandogli i capelli con un gesto che solitamente si dedica ai cuccioli - cosa te ne fai di un cane se abbiamo già Jun che ringhia? – che nella sua mente comincia a martellare un solo pensiero.
Sono le speranze che li hanno tenuti vivi fino ad adesso, a cui devono tutta la loro forza. Ho bisogno che non siano solo fantasie. Farò di tutto perché non rimangano solo fantasie. Ed è come benzina nella vampa.
Persino Boris parla, per allontanare gli spintoni amichevoli con cui Luke lo sta tormentando per indicargli che è arrivato il suo turno. Il suo tono è quasi imbarazzato, e cozza maledettamente con l’immagine della sua figura rude e spigolosa. “Voglio avere una famiglia.”, balbetta, e poi riprende, quando sente gli sguardi increduli degli altri addosso, “voglio un figlio a cui poter insegnare cos’è giusto e cos’è sbagliato. Così che non faccia gli errori con cui ho dovuto convivere”. Le sue parole sono seguite da un silenzio cheto, ancora una volta.
Tutti lo osservano con riverenza, l’espressione di chi comprende in volto. Jun sa che Boris ha sferrato un colpo difficile da ignorare, un’immagine che nessuno di loro ha mai osato ammettere, che non si sono mai permessi di sognare, ma che rimane custodita come monito del perché stanno facendo quel che stanno facendo, perché stanno rischiando da anni – ed è una risposta così semplice, adesso: perché un giorno chi verrà dopo di loro possa essere capace di amare e odiare, senza paura del suono del chip. Perché possa essere persona, non bestia, non errore. Perché possa sperare esattamente come hanno sperato tutti loro, ma possa farlo in un mondo che non uccide con crudeltà, che non sbrana, ma che comprende.
Jun non ha mai pensato così tanto al futuro – non ad uno così lontano, almeno. Ha sempre cercato di essere un passo avanti a tutti, di circondarsi di notizie e strumenti che gli potessero permettere di guardare lì dove ancora nessuno era arrivato, la maggior parte delle volte con risultati notevoli. È solo adesso, però, mentre guarda i volti stanchi degli altri, che si sofferma a pensare al fatto che non saranno soli. Che ci sarà qualcosa dopo di loro, non finirà tutto unicamente sulle loro mani sporche.
Se riusciranno, potranno godersi la libertà per cui tanto hanno sofferto.
E se non riusciranno, allora forse ci sarà chi continuerà a battersi e a camminare sulle loro orme. La nascita di un nuovo futuro. È anche per quello, pensa, che gli altri hanno sempre dato il massimo: per la gioia di avere qualcuno da proteggere, a cui insegnare ciò che si è imparato con lacrime e sangue; per la gioia di vederli vincere in quel mondo che li ha tenuti in gabbia troppo a lungo. Per vederli volare, su ali che loro non hanno mai avuto, ma hanno imparato a costruire.
Per la prima volta dall’inizio di quella discussione, Jun si volta verso Jane. Non sa perché lo fa, è un riflesso istintivo, cercarla con gli occhi, osservare la sua espressione, tentare di intuire cosa stia pensando. Boris ha parlato di famiglia, sì, e Jun non ha mai considerato nessun altro famiglia se non suo padre, Imani e, per i pochi ricordi che ha, sua madre. A nessun altro ha mai permesso di attribuirsi quel nome. Anche con i membri della Resistenza, ha preferito fondare un rapporto che non ci somigliasse, che fosse totalmente diverso.
Dunque perché non riesce a distogliere lo sguardo da Jane? Lei non fa parte della sua famiglia di nascita, non come Imani che è ormai più di un fratello nonostante il sangue che scorra nelle loro vene sia di natura profondamente diversa. Perché, allora, il profilo delicato di Jane mentre tenta di rimbeccare il fuoco con un misero bastone, perché il modo in cui si muove, in cui sorride, in cui lo guarda- perché è tutto così familiare?
La risposta gli muore in gola mentre sta prendendo respiro. È un pensiero ingenuo e nuovo, uno di quelli che lo spaventa – no, lo terrorizza –, che non gli appartiene e mai gli apparterrà, ma che si fa strada nella sua mente, incontenibile, e per quanto Jun tenti di reprimerlo, per quanto sia bravo a mettere da parte ciò che non ritiene utile, non ritiene possibile – nonostante tutto, riaffiora violento davanti a suoi occhi, come se fosse reale, per qualche secondo: è l’immagine di un bambino, e ha i lineamenti fragili di Jane, i suoi stessi capelli biondi, il colore chiaro dei suoi occhi. Ma poi sorride, e per Jun è come guardarsi allo specchio: il modo in cui stende le labbra per mostrare tutti i denti, le fossette morbide che gli nascono ai lati della bocca, gli occhi sottili che si chiudono in una mezzaluna perfetta e che sono da sempre stati segno di una felicità troppo assente nel viso di Jun, ma che adesso si ripresentano con impeto ingenuo in quelle guance paffute, innocenti.
Jun lo capisce. Jane non è la sua origine, no, non può mai esserlo stata. Non è la famiglia in cui è nato e cresciuto.
Ma è la famiglia che può far nascere. La famiglia che Jun può creare. È il suo punto d’arrivo, forse.
Se non ha già rovinato tutto. Se non è troppo tardi.
Imani dà uno strattone alla sua spalla, riportandolo bruscamente all’interno di quel cerchio di persone che ora hanno lo sguardo fisso su di lui, in attesa. I tratti dei loro visi, nota, sono più rilassati, hanno recuperato il colore originario. Ed è un buon segno.
“E cosa vorrebbe fare il nostro leader appena avremo vinto?”
Si accorge di aver mancato un paio di altri desideri, immerso nei pensieri, e che ora stanno aspettando tutti che sia lui ad esprimersi. Persino Jane lo sta guardando con aria sollevata, le mani unite sul grembo. Forse questa è l’unica occasione che ha per poter mettere le cose a posto. Per scusarsi di aver trattato ciò che più era importante per lui come se non lo fosse.
È un comportamento che gli si addice, in fondo, che ha perpetrato per tutta la sua vita – allontanarsi da ciò che non era essenziale, rimanere concentrato sulla missione, evitare distrazioni che si manifestano in molte forme. E la più letale è, senza dubbio, quella dei sentimenti.
Tutti i Controlled, in fondo, sono stati educati a rigettare le loro emozioni, a placarle a forza, sin da bambini. Era il prezzo da pagare per poter semplicemente vivere – annullarsi di quel che li rende unici, nel corpo e nella psiche. Eppure Jun crede di aver avuto sempre una predisposizione per questo: da quando non ha più visto sua madre, da quando suo padre è diventato il fantasma dell’uomo premuroso con cui è cresciuto per cinque anni, da quando ha imparato cosa significa essere diverso, essere bestiale – da quella volta ha tentato in ogni modo di dissolvere ciò che sentiva. Ed è stato facile, in un primo momento. Era per proteggersi, per sopravvivere, e non aveva, in ogni caso, bisogno di sentire alcunché se le sue giornate passavano in casa, ad ascoltare il tornio di suo padre vibrare, senza alcuna interazione con nessuno a parte le pagine dei libri che gli aveva lasciato sua madre. Era come essere vuoti: se avesse voluto urlare, dire al mondo del proprio dolore, al tempo, nessun suono sarebbe uscito mai dalla sua bocca. Lo sa.
E poi era arrivato Imani, e con lui Ismal. E con loro una valanga di speranze, di eccitazione. Una missione. Per lui.
Da allora era stato difficile ricominciare a far finta di nulla, perché tutto ciò che riusciva a sentire era improvvisamente moltiplicato: il dolore della perdita di Ismal, troppo crudele per quello che era solo un bambino con un dono straordinario; l’impotenza che lo aveva attanagliato finché non aveva deciso di realizzare concretamente quello che con Imani stavano progettando da mesi; la rabbia dell’essere costretto a nascondersi, a reclutare in silenzio, a guardarsi sempre le spalle; l’indolenza del sentirsi da solo contro un mondo ingiusto che li divora dall’interno; e la felicità, dirompente, esplosiva nel suo petto martoriato, di aver trovato persone che si fidano ciecamente delle sue abilità, che sarebbero state disposte a seguirlo dovunque, la soddisfazione di avere una seconda famiglia, questa volta scelta e unica, sui cui poter contare. E infine l’amarezza di un destino che è difficile da manipolare, da distruggere per poter essere ricomposto nuovamente; di un destino che giorno dopo giorno minaccia di lasciarli a morire sul terreno sporco, gli occhi vitrei, nessun sorriso sulle labbra.
Ha imparato di nuovo a gridare.
È per questo che ha tentato in tutti i modi di seguire ciò che fosse giusto, non ciò che sentisse – ciò che avesse senso, non ciò a cui sperava di poter dare un senso. La sua morale così rigida non gli ha permesso di perdonarsi nemmeno un minimo sbaglio, non la più piccola disattenzione. Ed ha funzionato: è stato guidato da un ruolo che si è imposto da solo, con l’inesperienza tipica di chi vuole salvare il mondo ma non sa da dove iniziare, e ha sacrificato la possibilità di una vita in gabbia seppur tranquilla – ma ce l’ha fatta: adesso la Resistenza è viva e pulsante e pronta a mordere e graffiare, e il loro legame è eterno e indissolubile. E, in ogni caso, non vorrebbe essere nient’altro rispetto a ciò che è diventato: il loro leader. È questo il suo titolo. Questa la sua missione.
Eppure, nonostante il suo controllo ferreo, non è mai riuscito a padroneggiarsi a pieno. Il terrore di perdere qualcuno del gruppo lo ha portato a scegliere più volte una diversa opzione piuttosto che quella più logica, ha pensato a loro e non alla missione, per il desiderio imperante di non abbandonare nessuno, di avere le mani quanto meno sporche possibile del sangue dei suoi compagni. Se questo sarà lo sbaglio che li porta a morire, che così sia allora – Jun non è capace di pentirsi per questo.
E poi c’è Jane. Che, inevitabilmente, è il punto più debole della sua intera vita.
E Jun ha provato in tutti i modi ad evitare che lo fosse, a distruggere i pensieri che gli si annidavano alla base della nuca per ogni sguardo che lei gli rivolgeva, a cancellare i battiti veloci del suo cuore, a dimenticare tutto il bene che lei gli ha fatto, alle sue mani che lo curano, alla sincerità del suo corpo ogni volta che lo cercava, tra la folla, solo per il piacere di potergli stare vicino, di far sfiorare le loro spalle, di rivendicare il fatto che si fossero trovati, in un mondo che non permette nemmeno di trovare sé stessi.
Jun ha provato, ed ha fallito. Il filo che li lega è solido, e trascende i loro geni, trascende le loro mutazioni. Appartiene a quell’anima che tanto li distingue.
E mai una cosa lo ha spaventato più che comprendere che, sì, irrimediabilmente, per amore di un sentimento che nemmeno lui è certo di voler provare, avrebbe fatto di tutto per Jane.
Ha giocato con lei, come un bambino col suo giocattolo prediletto, ma più spingeva per avere spazio tra loro, perché lei non si accorgesse del modo in cui le sue gambe tremavano quando sussurrava il suo nome, più, assurdamente, si ritrovava aggrovigliato nella sua tenerezza, nel suo profumo di casa, nell’ingenuità delle sue convinzioni. E ha pensato di non poterla sopportare, quella vicinanza. Non poter sopportare il pensiero che, forse, un giorno o l’altro, l’avrebbe persa. E non sarebbe stato più in grado di rimettersi in piedi, quando la Resistenza non aspetta altro che le sue parole risolute a guidarli. Non avrebbe potuto permetterselo.
Ma adesso, che le mura sono lontane e il suo chip non trilla più da tempo, adesso che ha veramente avuto l’occasione di perderla e, per evitarlo, ha barattato ciò che lo rende unico tra i Controlled – adesso che sembra tutto così sfuocato, eppure così concreto, adesso, pensa, la sua missione può sopportare una deviazione. Se Jane glielo permette.
“Allora? Devi pensarci ancora tanto?”. La voce di Imani riecheggia tenue nelle sue orecchie, e Jun alza finalmente lo sguardo dalle mani che ha continuato a tormentare per tutto il tempo.
“Vorrei ballare”, dice.
E, per un momento, solo per un momento, cerca gli occhi di Jane. E quando li incontra capisce che è anche il suo, di desiderio. Che le notti che hanno passato a danzare goffamente nel magazzino vuoto, ubriachi di stanchezza e dell’odore caldo dell’altro, stretti e felici come se non fossero che persone normali, a godere della loro libertà, in un modo che è comprensibile solo a loro, nel mondo che stanno costruendo passo dopo passo, sussurrando segreti nel buio e stringendosi fianchi e mani così forte da fare quasi male, con la delicatezza delle loro labbra che si inarcano scomposte sui loro visi incerti – ecco, quelle notti non sono mai state uno sbaglio. E Jun vorrebbe maledirsi per aver pensato che lo fossero.
Non dice nient’altro. Lascia che sia il tremore fievole delle sue mani a parlare per lui, nelle orecchie il ronzio fastidioso del suo cuore che batte, cosciente, mentre Jane lo guarda, e Jun si sente bruciare sotto quegli occhi di cristallo.
Non la lascerà andare. Non questa volta.
Finiscono a ridere, tutti insieme, quando l’oscurità si è fatta ancora più fitta – e sembra non sfiorarli nemmeno, perché la flebile luce che è riaffiorata nei loro occhi è abbastanza per proteggerli da una paura di cui sono stati schiavi per molto tempo, che li ha tenuti incatenati e senza fiato, ma che, almeno per questa notte, ha smesso di tormentarli. Si scambiano parole di conforto, si stringono le mani con una tenerezza che non hanno mai avuto tra loro – sono vulnerabili, sì, ma è una vulnerabilità che hanno imparato a condividere nuovamente con gli altri, e questo, in un modo perverso, assurdo forse, li rafforza. E non esistono più graffi sulla pelle, né ferite invisibili: da oggi esistono solo loro, e la loro forza nel credere ancora una volta in questa missione impossibile che, adesso, impossibile non pare più.
Quando ormai le loro voci sono poco più che un sussurro rassicurante, e le frasi vengono sbiascicate a fatica per il troppo sonno, decidono di dividersi per dormire, anche se i loro corpi sembrano essere più leggeri che mai. Jun si avvia verso la piccola tenda, dopo aver salutato Imani con un sorriso flebile, ed è con sorpresa che vede la figura di Jane ad aspettarlo lì davanti, lo sguardo rivolto verso il terreno ma che si solleva immediatamente non appena percepisce la propria presenza. Ha le braccia incrociate sul petto, come se fosse stizzita – e ne avrebbe tutte le ragioni, pensa, perché forse l’ha infastidita con quella confessione prima, perché forse è stato inopportuno, è stato stupido da parte sua pensare che quella semplice frase potesse recuperare tutti i mesi che hanno passato senza nemmeno guardarsi negli occhi, troppo distanti per un motivo di cui lui, e solo lui, è l’artefice assoluto, è un pensiero ingenuo quello di potersi scusare in questa maniera così silenziosa, senza nemmeno farlo a dovere, sperando che Jane capisca, eppure è l’unica cosa che è riuscito a dire, è stato sincero per la prima volta in chissà quanto tempo, ma no Jun, non basta l’onestà, ed è difficile riprendersi adesso qualcosa per cui non ha combattuto prima, forse è davvero troppo tardi, forse davvero meriterebbe di essere lasciato solo, nell’ironia di aver cercato di inseguire ciò che precedentemente ha lasciato sfuggire con così tanta leggerezza, nell’ironia di trovarsi, sempre, nel momento sbagliato per provare quel che sta provando – ma, assurdamente, la maniera con cui lei gli si avvicina appena, con una familiarità disarmante, come gli stringe le dita attorno al polso per non farlo scappare, è tutto fuorché aggressiva. E anche questa volta Jun sente di non meritare, per nessuna ragione al mondo, la gentilezza con cui Jane lo tratta, la velocità con cui è pronta a perdonarlo nonostante le labbra strette e lo sguardo basso.
“Jane?” sussurra, perché se alzasse la voce, forse, la speranza che si è annidata nel suo cuore, piccola e debole, potrebbe spezzarsi, e non è quel che vuole. L’ha capito troppo tardi, sì, ma è una consapevolezza che non è pronto a lasciarsi scappare, non ora.
“Seguimi e basta.”
E Jun ubbidisce, come il cane che è. Jane lo guida in silenzio, tra le frasche, in un sentiero che sembra conoscere perché i suoi passi sono svelti e decisi, calpestano le erbacce nei punti giusti e lui si chiede quando abbia trovato il tempo per prendere così tanta dimestichezza nei dintorni, e soprattutto dove lo stia portando. È pur sempre notte fonda, e Jun tenta di essere quanto più attento possibile – non hanno trovato nessun pericolo nei giorni precedenti, ma fidarsi ciecamente di questa informazione è un rischio e non hanno bisogno di questo, al momento, non quando non hanno nessuna idea di cosa possa trovarsi al di fuori delle mura – ma l’unica cosa che riesce a fare, nel tentativo di utilizzare il proprio senso migliore, è inspirare un lieve odore metallico, che non lo ha ancora abbandonato nonostante le cure frettolose che gli hanno dedicato tutti gli altri. E si sente frustrato – il suo olfatto è tutto ciò che lo rende Beast, oltre alle sue zanne, ed esserne privato è una sensazione alla quale non si è abituato e non si abituerà mai, come si è invece abituato all’idea di essere un peso per la squadra, adesso che il suo senso più sviluppato è totalmente inutile e non può più proteggerli.
Stanno risalendo una collina per arrivare ad un piccolo spiazzo, una sorta di alcova circondata da alberi che non hanno chiome così fitte che si chiudono tra loro, ma lasciano intravedere il cielo. Per un attimo Jun si mette all’erta, perché quel posto non sembra affatto naturale, è troppo perfetto per esserlo, forse c’è davvero vita fuori dalle mura e quello è stato l’accampamento di qualcuno, devono stare attenti, non possono abbassare la guardia e cadere nelle trappole di qualunque creatura viva in queste lande desolate, devono–
“Jane, che ci facciamo qua? È pericoloso, non dovremmo-”
Lei fa roteare gli occhi in segno di impazienza, come se si aspettasse la sua reazione, e sbuffa appena.
“Guarda e basta, Jun.”
Le sue dita sciolgono la stretta che fino ad allora hanno avuto sul polso di Jun. Indicano in alto.
L’unica luce che illumina le loro sagome è quella della luna, tonda e brillante, e, sorprendentemente, è sufficiente perché i loro occhi riescano a distinguere con chiarezza inaspettata ciò che li circonda: non sarebbe mai stato possibile, a New Prague, con la schiera di palazzi altissimi che oscurano il cielo e le mille insegne brillanti e colorate dei locali in cui loro non hanno nemmeno il permesso di entrare. È mozzafiato, l’immagine della volta celeste puntellata di mille piccole stelle, immensa sopra le loro teste: a Jun ricorda l’illustrazione di un libro che sua madre gli ha lasciato, prima di andare via, e che lui ha stretto al petto per così tante notti, sperando che la luce degli astri che erano lì dipinti potesse entrare nel suo piccolo corpicino da bestia abbandonata, per consolarlo e distrarlo – che idea stupida, per un bambino che ha imparato da subito che nessuno sarebbe arrivato a salvarlo, che essere l’errore in una società crudele e senza scrupoli era il destino che gli era stato assegnato, e che condivideva con chissà quante altre persone in quella città.
E adesso, quello stesso cielo è così vivido e lucente davanti ai suoi occhi – e forse nella sua vita è stato troppo impegnato ad occuparsi dei suoi compagni, a far sì che le loro strategie avessero un senso e fossero tutti in grado di stare al passo, forse è stato troppo occupato a guardare verso il basso, come gli hanno sempre insegnato, perché quello spettacolo stupefacente non l’ha mai visto. Ma ora lo accoglie con l’intensità dei suoi colori, e Jun si stupisce di sapere che non ha paura. Non è la solitudine lacerante di quando era bambino, quella che lo divorava per intero lasciandolo livido e stanco sul letto, no. È una sensazione nuova, essere entrambi circondati dal silenzio, solo lui e Jane, coi nasi puntati verso le stelle, con la consapevolezza di essere nient’altro che creature infime all’interno di un universo così vasto – ma creature che stanno lottando per quella loro piccolezza, che per loro vale tanto quanto quel cielo brillante. E questo pensiero lo riempie, Jun sente le spalle rilassarsi, il sorriso crepitare leggermente sulle sue labbra secche.
Appena cerca con lo sguardo Jane – perché non ha altro desiderio che vedere quello stesso sorriso affacciarsi sul suo viso determinato, vederla invasa da tutto quello splendore che le si riflette teneramente sui lineamenti – la trova accucciata poco più avanti, a smanettare con quella che Jun riconosce essere la radiolina con la quale ascoltavano le notizie del Governo, quando erano nascosti alla Resistenza – e le musiche, di notte, quando tutti erano nelle stanze a dormire, e loro due facevano finta di ballare, di essere bravi a farlo, ed era il loro modo di sfuggire al dolore che li dominava di giorno, cercarsi nel buio per ridacchiare piano, e farsi cullare dalla stanchezza e dal calore dei loro abbracci.
Dopo qualche istante in cui non si riesce a sentire altro che statico, un fastidioso ronzio che si interrompe per poco ad ogni cambio di stazione, Jane trova ciò che stava cercando. Le si illumina il volto, e una melodia leggera, appena udibile grazie all’assenza completa di rumori che non siano i loro passi, comincia a farsi strada nelle orecchie di entrambi. Jun non distingue se si tratta solo di una traccia strumentale, o se ci siano anche parole – e, se ci sono, sembrano incomprensibili, non importa quanto s’impegni a riconoscerle.
“È una delle poche che funziona anche fuori dalle mura. Me ne sono accorta il primo giorno”, dice lei, avvicinandosi piano. Quando gli si trova davanti, in un gesto naturale, gli prende la mano e se la poggia sul fianco, allacciandogli subito dopo le braccia dietro la nuca, come se non fossero passati mesi dall’ultima volta che si sono ritrovati in quella posizione. Jun la guarda confuso – no, non confuso: è meravigliato. Quella scena sembra così surreale, dopo tutto quello che hanno passato nei giorni precedenti. Dopo tutto quello che le ha fatto passare. Esita.
“Io- pensavo non mi avessi sentito, prima, attorno al fuoco. Pensavo non fosse il caso-”
Ancora una volta, è lei ad interromperlo, stringendolo con delicatezza, lo sguardo che ben sostiene il proprio.
“Smettila di parlare per una buona volta, Jun.”
È cresciuta, Jane, ed è diventata forte. E si scontra così prepotentemente con la debolezza che Jun ha appena scoperto dentro di sé, di cui è stato sempre cosciente ma che ha tentato di occultare finemente nell’unico modo che conosceva. Ed è quasi comico il modo in cui riescano a completarsi anche adesso, che sono cambiati profondamente dalla prima volta in cui si sono incontrati, in quel vicolo nascosto, anni fa. Jane ha gli occhi pieni del coraggio che tanto distingueva Jun, e che adesso sembra mancargli.
L’unica cosa che Jun può sperare, allora, è di possedere anche solo un minimo della dolcezza di Jane. Dell’abnegazione con cui si è presa cura di tutti, meno che di se stessa; con cui lo ha amato senza pretendere nulla in cambio, sorridendo dei piccoli tocchi, delle parole che si lasciava sfuggire, della sua sola presenza vicino a lei. Con cui, adesso, si staglia tenace davanti a lui, la chioma bionda legata distrattamente in una coda disordinata, il viso appena sporco. La migliore versione di sé. Vera. Jun la trova bellissima.
Alla luna, stasera, serve l’onestà.
Le abbraccia i fianchi, le mani che si posano leggere sul piccolo incavo che Jane ha nella parte bassa della schiena, così come era abituato a fare. Il modo in cui si sfiorano non è impacciato né timido: hanno bisogno entrambi di questo più di quanto abbiano piacere ad ammettere, lo hanno desiderato in maniera così dolorosamente evidente, che Jun riconosce la brama sotto le dita di Jane mentre gli accarezza la nuca con il pollice, distrattamente – ed è la stessa brama con cui Jun avvicina il naso ai suoi capelli, gli occhi socchiusi, come se potesse nuovamente sentire l’odore che lo inebriava nelle notti in cui si perdevano l’uno nell’altro, mesi fa.
E, semplicemente, ballano.
Jun riscopre di non aver mai abbandonato quel mondo che condivide solo con Jane, e che si manifesta nei loro passi incerti e nel modo in cui seguono il ritmo morbido della canzone che stanno ascoltando, i loro tocchi leggeri sulla pelle dell’altro.
È un mondo in cui Jun può desiderare. E può sperare di essere desiderato.
Per quella notte soltanto, Jun sa che lo farà. Continuerà a sperare per lei.